Recensione di Marco La Terra
Una recensione di Marco La Terra
“Nemesi significa distribuzione del fato, intesa come giustizia compensatrice o riparatrice, o interpretata anche come giustizia divina. Oggi questo termine si usa anche per intendere una situazione negativa che giunge immediatamente dopo un periodo particolarmente fortunato, sempre come atto predestinato alla compensazione. L’idea che soggiace a questo termine è di un mondo che risponde a una legge di armonia, per cui il bene debba essere compensato dal male in egual misura”. (Wikipedia)
Distribuzione del fato, giustizia compensatrice o riparatrice.
Giustizia divina.
Armonia.
Cazzate.
Fatemi accendere il mio fetido mezzo Toscano e veniamo al dunque: non vi è alcun senso di armonia in quest’opera del monumentale Roth, tanto per cominciare.
Non vi prendono parte né giustizia compensatrice né, tanto meno, riparatrice.
Nulla di tutto ciò.
Se poi per “giustizia divina” vogliamo intendere quel peculiare accadimento di circostanze legate all’imprevedibilità degli eventi, all’anarchia, al cinico e bieco Fato, sottintendendo così l’assoluta assenza di ciò che viene comunemente identificato con il dio dei cristiani o, peggio ancora, la presenza di un’entità diabolica e priva di coscienza morale allora sì, Nemesi è un’opera intrisa di giustizia divina.
Secondo aspetto: la lettura di questo romanzo può suscitare diversi tipi di reazione.
Con ogni probabilità, i credenti saranno indotti a stigmatizzare negativamente la rabbia contro dio che Mr. Cantor, raro caso di virtù umana logorata da notevoli moli di sfiga, accumula nel corso del tempo. Diversamente, immagino gli agnostici fare spallucce e liquidare la faccenda con un serafico “mamma mia che jella nera!” e gli atei, diversamente, inveire contro questo dio satanico che decide di falcidiare la zona ebraica di Weequahic, nella zona sudoccidentale di Newark, con il flagello della poliomielite.
Io sono per quest’ultima scuola di pensiero e, credetemi, sono ancora incazzato nero. Sì, lo so, è un problema mio, non vostro: voi volete solo sapere se gli undici euro dell’edizione Einaudi siano un buon investimento oppure no.
Beh, lo sono. Contenti?
Risolto l’aspetto più triviale (e merceologico) della faccenda, veniamo alla trama.
Siamo nel 1944, in pieno conflitto mondiale ed Eugene “Bucky” Cantor, suo malgrado, nonostante il vigore fisico che lo caratterizza, a causa di un grave deficit alla vista non è stato arruolato entro le fila dell’esercito americano. Di conseguenza, è tra i pochi giovani in circolazione a Newark, quartiere natale di Roth (che nel romanzo, quale voce narrante, si presenta con il nome di Arnie Mesnikoff), dove svolge l’attività di animatore del campo giochi locale, dedicandosi anima e corpo ai suoi ragazzi.
Dopo la prima epidemia del 1916, il morbo della polio incombe nuovamente e, senza preavviso alcuno, si scatena inesorabile sulla comunità di Weequahic, falcidiando la popolazione locale.
Bucky Cantor è un ragazzo buono e generoso, già duramente provato nel corso dei suoi primi ventitrè anni di vita: dopo tanto penare, meriterebbe davvero un avvenire di gioia e felicità accanto alla fidanzata Marcia, che con lui condivide un amore puro e totalizzante. La speranza di un futuro finalmente migliore lo spinge ad abbandonare Newark per raggiungere Marcia a Indian Hill, lontano da Weequahic, lontano dalla polio: aria limpida e salubre, non più la cappa di caldo dove il morbo della malattia imperversa, uccidendo o rendendo storpi, bambini inermi, bambole di pezza nelle mani di un Fato cinico e spietato.
Ma, a conti fatti, come giudicare il comportamento di Bucky? Una legittima fuga verso una speranza di felicità o un ignobile atto di egoismo e vigliaccheria?
L’antinomia in questione s’incarna nella visione della vita (e nei relativi comportamenti) dei due amanti, Marcia e Bucky che valutano il comportamento di Eugene in maniera diametralmente opposta. Dal canto suo, Bucky non si dà pace (“si tennero abbracciati senza parlare. Dovette trascorrere un quarto d’ora. Bucky non riusciva a pensare ad altro che ai loro nomi, a vedere altro che i loro volti: Billy Schizer. Ronald Graubard. Danny Kopferman. Myron Kopferman. Alan Michaels. Erwin Frankel. Herbie Steinmark. Leo Freinswog. Paul Lippman. Arnie Mesnikoff. Non riusciva a pensare ad altro che alla guerra a Newark e ai ragazzi che aveva abbandonato”).
Ciò detto, per quel che concerne l’analisi del protagonista (e il nocciolo della mia arrabbiatura), sono proprio il profondo senso etico di Bucky Cantor, la sua integrità e l’incredibile rigore morale che lo contraddistingue, a rappresentare l’autentico sollazzo del Fato.
Il Destino non ha ancora finito con Bucky, non si è ancora divertito abbastanza con lui: e, allora, ecco l’inizio della fine, il sovvertimento della morale, dove le migliori virtù diventano i peggiori difetti, grazie a cui un’esistenza umana viene definitivamente annientata.
Un disastro su tutta la linea che lascia senza parole. E impotenti.
Impotenza e rabbia.
E il vuoto.
Per quanto mi riguarda, dopo aver terminato la lettura del romanzo ho ceduto alle mie inclinazioni blasfeme: trattandosi di un impulso connaturato al mio essere, mi rendo conto che questa reazione non possa rappresentare un precedente significativo.
D’altro canto, l’irrisolvibile problema che caratterizza la natura umana, presentato da Roth in maniera violenta e selvatica (come suo costume del resto) è sempre lo stesso:
“Credi davvero che Dio abbia esaudito le tue preghiere? – le domandò.
– Non posso saperlo. Però tu sei qui, no? E sei in salute, no?
– Questo non prova niente, – disse lui – Perché Dio non ha esaudito le preghiere dei genitori di Alan Michaels? Devono pur aver pregato. Anche i genitori di Herbie Steinmark devono aver pregato. Sono brave persone. Sono bravi ebrei. Perché Dio non ha interceduto per loro? Perché Lui non ha salvato i loro figli?
– Onestamente non lo so -, rispose Marcia impotente.
– Non lo so neanch’io. In primo luogo non so perché Dio ha creato la polio. Cosa voleva dimostrare? Che sulla terra abbiamo bisogno degli storpi?
– Dio non ha creato la polio, – disse lei.
– Credi di no?
– Già, – disse lei stizzita, – credo di no.
– Ma Dio non ha creato tutto?
– Non è la stessa cosa.
– Perché no?”
Questo è tutto: anche il mio fetido mezzo Toscano mi ha piantato in asso, perciò vi debbo salutare, e catapultarmi dal tabaccaio più vicino.
Per quanto riguarda la millenaria tematica, fonte del mio malumore pressoché quotidiano, io non so cos’altro dirvi: se qualcuno è dotato di risposte migliori delle mie, è vivamente pregato di farsi avanti.
Grazie.
Marco La Terra [email protected]
15 gennaio 2014
Il succo del racconto a mio parere è la risposta al perché di tutta questa sfiga.
L’autore propone tre soluzioni: una è da ricercare in Dio e la sua oscura volontà, la seconda ritiene che siamo noi stessi gli artefici delle nostre sfighe attraverso i nostri comportamenti e le nostre scelte. La terza, ed è quella che Roth crede, è che questo fiume di sfiga sia causa solo del CASO, e quindi è inutile perdere tempo nelle preghiere o a scervellarci alla ricerca di un Dio e di come e perché si manifesta. Ne tantomeno dobbiamo portarci addosso il fardello dei sensi di colpa del “se invece avessi fatto così allora forse…”. E’ un invito a vivere la vita con leggerezza e senza indagare attorno ad ogni avvenimento nefasto.
15 gennaio 2014
Grazie davvero per il tuo intervento Malcolm, da come scrivi mi pare di capire che il libro ti sia piaciuto… io al di là della forte arrabbiatura (sono trascorsi due mesi da allora, mi sono ripreso 😛 apprezzo per davvero Roth. Di recente ho letto “La macchia umana” e… beh… senza parole. A me Roth e McCarthy lasciano sempre senza parole…
2 giugno 2015
Anch’io mi sono un po’ arrabbiata con Bucky e con Roth per questo eccesso di senso etico ma il libro è talmente ben scritto che, a parte il finale, l’ho assaporato con grande piacere. Diversamente da ‘Indignazione’ che non mi aveva colpito allo stesso modo, e adesso vorrei leggere qualcos’altro di Roth..