Racconto scritto e proposto da Alessandro Dantonio
Mi sono distratto e il caldo mi ossessionava. La differenza la fa il termostato che cazzo non funziona. Di fatto la scelta è tra il rigore morale, le possibile ragioni per ovviare alla tempesta, e la voglia di fare l’amore, che riguarda tutto quel che ho nella testa e nelle spalle. Mi poteva comunque andar peggio, e peggio di così come ora mi sento… sinceramente vi voglio dire che le mie mani non riescono più ad essere spavalde come un tempo, e non si approfittano, come allora, di una forza e di una misura fuori del normale. La mia forza continua ad essere feroce, ma la mia testa non vuol più sorreggermi, me l’ha già detto, minacciato. Ho intanto incombenze nuove e vago nel ricordo di quando potevo sembrare l’uomo più attento, e felice, e giocoso. Nulla è stato così vero nella mia vita, e così falso. Stasera si recita a soggetto. La mia indole è fuori misura comunque, sempre; il mio animo gentile spesso si rivela infingardo triste, e cagionevole. La mia statura oscilla, s’alza e s’abbassa, e per poi ancora rialzarsi. Ma sono così in vita da farmene sempre una ragione. Non ho idoli appesi alle pareti, oppure poggiati sul comodino, e il mio comodino non c’è di fatto, l’ho lasciato andare insieme ad altro. Poso le cose in terra, il pensiero e che così non possono cadere, e mi approccio alle persone come da un luogo lontano e solitario, isolato da un vetro trasparente e poco poroso. Sento gli odori certo, gusto i sapori, eccome, ma di là da qualcosa che è mio e non so che cos’è. Trasporto cose, pesi, oggetti, movimento nello spazio e dentro la mia testa. Mi intestardisco, ed adoro tutto ciò che so non appartenermi, molto meno ciò che è mio, rifiutandolo. Guardo le finestre illuminate nella sera, quelle dai cui vetri mi sono anch’io affacciato, e non provo dispiacere, non provo nostalgia, non provo nulla, se non la solita rabbiosa voglia di andarmene ancora. Non amo le stanze, mi piacciono i luoghi, non voglio percorrere un tragitto, voglio andare a carponi, cercando le pietre e i sassi sulla terra polverosa, e togliendoli da sotto i piedi e le ginocchia. E quando corro, lo faccio per correre ancora e ancora, non perché mi piace, ma perché ne amo il gesto. Correvo da ragazzo, e con la stessa incantevole sorpresa amo farlo ora. E infine pago il mio prezzo, com’è giusto, come lo posso fare, come lo faccio io. E se domani ancora sarò qua, sarà per poter trovare, di nuovo e forse, una possibile via verso qualcos’altro. Altrimenti avrò trascorso, trascinato, un altro inutile giorno. Siamo tempo fuggito, prezioso, e tempo rimanente. Tempo ti adoro, e mi scappi di continuo, per te nessun inganno è bastante.
Alessandro Dantonio
23 dicembre 2013
Chiarissimo il finale. Il linguaggio che usi è però un po’ ‘difficile’, almeno per me, tanto che non mi sembra di aver colto alcuni passaggi. Non riesco addirittura a giustificare il piacere comunque suscitatomi dalla lettura, eheh. Complimenti!