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Il Disco Volante

Racconto breve di Alfredo Perna

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Una sera d’ottobre Elido Rispoli, un ex paracadutista del B.N.P. di Fontana di Polo, mi racconta quanto segue:

“Era l’estate del ‘44. C’era la guerra: bombardamenti, l’Italia spaccata in due, i tedeschi a nord, gli inglesi e americani a sud. L’episodio che voglio raccontarti si verificò durante un mio soggiorno a Roma, in Via Del Plebiscito. Saranno state le sette del pomeriggio. Ricordo che era il tramonto, comunque. Camminavo verso Palazzo Venezia. Il cielo era terso, limpido e una striscia rosa, questo lo ricordo molto bene, attraversava l’orizzonte in lontananza, come se un velo leggero fosse stato abbandonato in quel pezzo di cielo da un aeroplano di passaggio. Quando successe il fatto distavo da Palazzo Barbo non più di 150 metri.

A quell’epoca avevo vent’anni e militavo nelle file della Repubblica Sociale. Non provo vergogna a dirlo. Era un’altra epoca… Appartenevo al reparto speciale della Decima, i paracadutisti del Battaglione N.P. ed ero reduce da diverse missioni di sabotaggio e spionaggio nelle regioni dell’Italia meridionale occupate dagli angloamericani. Dico questo per specificare un fatto importante. Ero in ottima salute. Per entrare a far parte di un reparto speciale devi esserlo per forza, perché devi sottostare a controlli medici di ogni tipo. Quindi da un punto di vista psicofisico ero a posto. Anche in questo preciso momento, mentre ti parlo, ti garantisco che sono lucido. Non soffrivo di allucinazioni e di vista avevo dieci su dieci. Tieni conto che ai corsi speciali, inoltre, t’insegnano a riconoscere a vista ogni tipo di arma, nostra e nemica, con particolare riguardo agli aerei. Degli aerei sapevo tutto: caratteristiche, velocità e armamento. E, proprio perché ero dotato di una vista perfetta, potevo riconoscere qualunque tipo di veicolo e a qualunque distanza.

Dunque, come ti dicevo, stavo camminando verso Palazzo Venezia. Quando improvvisamente sentii delle urla. Mi guardai attorno e portai la mano alla fondina della pistola. Ma non era un attentato, la gente gridava e guardava per aria; alcuni scappavano nei rifugi. Guardai anch’io per aria e restai di stucco. Piazzato nel bel mezzo del cielo di Roma c’era un piatto gigantesco! Era immobile, luccicante. Stava ad una quota di circa 200 metri tra Piazza Venezia e Via del Plebiscito. Un’altra cosa che ricordo bene era questo rumore di fondo, un muggito sordo attorno all’apparecchio; sembrava il lamento straziante di un lupo ferito.

Non so per quanto tempo restai bloccato sul marciapiede a guardare quella cosa.

Ad un certo momento partirono le sirene d’allarme. Lo rammento come se fosse successo oggi. Mentre la gente attorno a me continuava a scappare nei rifugi, rimasi pietrificato, col naso sollevato per aria, a fare tutte queste considerazioni:

Poi, d’improvviso, questa cosa cominciò ad abbassarsi lentamente su Via del Plebiscito, diventata nel frattempo deserta come uno spazio lunare. E da sotto quel piatto ad un tratto venne sparato un grosso fascio luminoso che mi investì come un’onda fluorescente, risucchiandomi all’interno della struttura. Tentai di ripararmi con un braccio sulla faccia, come se fosse servito a qualcosa e senza nemmeno accorgermene, svenni.

Quando ripresi conoscenza, a bordo del disco volante, mi venne incontro un individuo più o meno della mia altezza, sul metro e ottanta. Aveva lunghi capelli biondi, occhi di un azzurro chiaro come il mare limpido di certi giorni d’estate; indossava un abito aderente e un mantello nero gli scendeva dalle spalle. Articolò con le labbra, per diverse volte, una modulata sequenza di tre o quattro suoni, in ordine sempre differente. Sembravano note musicali. Visto che non mi riusciva di comprenderlo in nessun modo, mi indicò una poltrona dallo schienale reclinato accanto ad un grosso oblò ed io capii, dal suo gesticolare eloquente, che mi dovevo sedere. Dopo un po’ si presentarono altri tre individui, del tutto simili a lui, nelle fattezze e nell’abbigliamento, e iniziarono a confabulare tra di loro in quello strano linguaggio musicale.

In breve caddi in un sonno profondo.

Feci uno strano sogno. Ricordo pure questo. Mi trovavo nella vecchia casa dei miei genitori, ero a letto e mia mamma mi scuoteva per una spalla intimandomi di aprire gli occhi. , diceva mia madre. dicevo io. Mia madre credeva che la mia fosse soltanto una recita per marinare la scuola, e continuò per un bel pezzo a scuotermi per la spalla.

Quando mi risvegliai ero di nuovo all’interno della nave. Nell’aprire gli occhi, ebbi un sussulto. Non riconobbi subito quell’ambiente; credevo di essere nel letto di casa mia. Invece, quegli individui erano ancora dinanzi a me. Uno di essi, non il primo che avevo visto, ma uno dai lineamenti più marcati e con un cerchio rosso scuro al centro del petto mi chiese: Capisci ciò che dico?

Quelle domanda non fu formulata in italiano, ma per me era chiara come se lo fosse.

Io sono Marte, disse l’individuo con il cerchio rosso sul petto. Mi riesci a comprendere?

Sì. Ti comprendo, dissi io.

Ti prego, non parlare nella tua lingua. Parla Merope.

Va bene, dissi provando ad usare quella nuova lingua. Mi resi conto di masticarla in modo bizzarro, con l’accento di uno straniero che ha poca familiarità con una nuova lingua. È incredibile, riesco a parlare in un’altra lingua! Riesco a parlare il Merope!, dissi con uno slancio di esaltazione.

È difficile spiegare come avessero fatto.

Marte mi presentò gli altri tre soggetti. Mi indicò il primo. Lui è Mercurio, disse. Si trattava dell’individuo che mi aveva accolto sulla nave; Mercurio fece un cenno con la testa. Poi, completando le presentazioni, disse che gli altri due si chiamavano Venere e Plutone. Anche gli altri due individui fecero una specie di inchino.

Marte era il loro capo. Mi spiegò subito che i loro erano nomi fittizi che utilizzavano solo per aiutarmi a distinguerli. Su Merope, gli individui non usavano nomi. Devi fidarti di noi perché sei tra amici, mi disse. Pure Mercurio ribadì il concetto, e aggiunse: Se c’è qualcosa di cui hai bisogno, chiedi pure.

Guardai i loro volti. Avevano la pelle estremamente chiara, occhi più grandi dei nostri e costantemente sgranati (davano l’impressione di esseri costantemente nervosi), però sembravano in tutto e per tutto degli esseri umani. Pure le loro mani erano più allungate delle nostre, con dita così nodose da sembrare dei rami di un albero. Anche se ero stato accolto in modo pacifico, provavo una certa inquietudine. Feci un cenno con la testa e quasi mormorai: Mi piacerebbe sapere dove mi trovo.

Siamo a bordo della Beta B6Ive, spiegò Marte.

Guardai perplesso l’individuo, storcendo le labbra.

Mercurio chiarì: La Beta B6Ive è una navicella interplanetaria che periodicamente compie missioni verso la Terra. E, pure se già l’avevo intuito, aggiunse: Marte è il capitano dell’astronave.

Marte sorrise leggermente. Spiegò che invece Mercurio era il suo secondo, mentre Venere e Plutone erano rispettivamente il medico e il navigatore di bordo.

Posso chiedervi perché mi trovo a bordo della vostra nave?, domandai ancora.

Mi avevano raccolto a bordo della navicella in quanto avevano bisogno di nuove leve per un loro progetto su Merope, spiegò il capitano. Quando chiesi che tipo di progetto, loro mi ripeterono di non dover temere nulla, perché ero tra amici e dopo quella cosa avrei fatto ritorno a casa. Tra le altre cose mi fu pure spiegato che l’aeronave viaggiava ad una velocità superiore a quella della luce, sfruttando la propulsione a curvatura; in pratica, avanzava comprimendo lo spazio attorno ad essa. Tutta una serie di concetti troppo assurdi per me, a quel tempo. Nella nave spaziale mi fu assegnato un piccolo alloggio, con un letto lungo e largo, una parete dotata di una sorgente luminosa, di cui non ho mai capito veramente lo scopo e con un oblò che affacciava nello spazio aperto che la nave solcava. Non so quanto tempo durò quel viaggio. Forse mesi, molto probabilmente anni. Non sarei in grado di spiegarlo anche perché la maggior parte del tempo l’ho trascorsa dormendo. E, durante quel periodo, ho fatto molti sogni strani. Sognai soprattutto mia madre e me da bambino, nella nostra vecchia casa.

Tempo dopo la navicella atterrò su Merope.

Quando toccai il suolo del pianeta, provai un leggero giramento di testa. Venere mi sorresse prontamente per un braccio e disse: È una cosa normale, non ti preoccupare. Dal tono della sua voce – più melodioso e sottile di quello degli altri due – mi accorsi per la prima volta che Venere era una donna. Non sei abituato al mutamento di clima, mi spiegò. In effetti, c’era una pressione atmosferica più bassa. Era come trovarsi ad una grande altitudine. Fui poi condotto in una stanza attraverso un lungo corridoio collegato alla porta di uscita dell’astronave. Mi fecero sdraiare sopra un letto e mi lasciarono solo, con un profondo senso di stordimento, in un ambiente piuttosto piccolo e illuminato da una luce fioca. In breve chiusi gli occhi e dormii per diversi giorni.

Tempo dopo entrò nella stanza un uomo dalle fattezze orientali. Era di mezz’età, vestito con abiti terrestri: una camicia di cotone azzurro, un pantalone cachi e un paio di mocassini. Come ti senti? Mi chiese in Merope. Lo guardai. Aveva un volto luminoso, sorridente e sembrava trovarsi perfettamente a suo agio in quello strano ambiente. Si avvicinò ad una parete e con uno strattone secco tirò via la tenda rivelandomi un paesaggio brullo, illuminato da una strana luce artificiale. Sembrava un deserto.

Mi sento ancora stordito, dissi sollevando la testa.

È normale, mi disse anche lui. Era il mutamento di clima.

Guardai per un po’ fuori dalla finestra continuando a chiedermi in che razza di posto fossi finito. Tu non sei come quegli individui, dissi all’uomo. Ma lui, come se non mi avesse udito, si diresse verso una delle pareti, la fece scorrere come un pannello di un armadio e da un piccolo foro fece sprigionare un getto di liquido grigiastro. Riempì un bicchiere di vetro di quella sostanza e me lo porse.

Cos’è?, chiesi.

È acqua, spiegò l’uomo.

Dal colore non mi sembrava affatto acqua. Comunque dopo avere bevuto fino in fondo ebbi l’impressione di stare un poco meglio. Scesi dal letto e chiesi all’uomo un altro bicchiere d’acqua. L’uomo dopo averlo riempito fino all’orlo, me lo porse di nuovo e chiese il mio nome.

Elido, dissi. Lui si presentò come Mutsohito. Ci stringemmo la mano. Poi mi disse se mi sentissi pronto. Pronto? Sì, per il compito che ti è stato assegnato. Gli dissi di non sapere nulla di nessun compito. Però ricordai che a bordo dell’aeronave gli individui mi avevano spiegato di aver bisogno di nuove leve per quel loro progetto.

Mutsohito era un giapponese di cinquantadue anni. Era stato rapito dai Pleiadiani all’inizio degli anni ’20 e da allora non aveva più fatto ritorno al suo Paese. Non provava nessuna nostalgia. Lì, su Merope, era felice perché gli era stato assegnato un vero scopo. Quando gli capitava di pensare alla sua vecchia vita, la rivedeva come vuota e grigia. Sulla Terra era stato un semplice professore di matematica ed in fondo aveva sempre vissuto nell’anonimato. Nessuna prospettiva di carriera, niente moglie, né figli. Mi sembrò una riflessione davvero molto triste. Quindi mi chiese: Sai perché gli alieni vengono sulla Terra per rapire gli uomini? Perché la vita su questo pianeta è estremamente deprimente. Un popolo depresso è un popolo destinato ad estinguersi in breve tempo. Svegliarsi al mattino senza una motivazione valida non ti dà nessuna spinta verso il futuro. Il compito di ogni rapito, mi spiegò l’uomo, è per l’appunto quello di prendere parte al progetto del Contagio Felice.

Tutta quella storia era per me incomprensibile, ma non dissi nulla.

Infine, Mutsohito, mi chiese se mi andasse di accompagnarlo.

Dalla stanzetta mi condusse in uno spazio aperto. Attraversammo una sorta di giardino circolare adornato con grosse piante dalle foglie rosso carminio, sistemate con estrema cura sopra massi ben levigati. Dopo il giardino c’era una porta di vetro e di metallo; vi penetrammo seguendo un lungo corridoio con le pareti sempre di vetro che affacciavano sullo stesso ambiente spoglio che avevo visto dal mio alloggio. Ad un certo punto il giapponese si fermò dinnanzi a un’altra porta, si voltò indietro e mi fece segno di seguirlo all’interno. Ci ritrovammo in un’ampia stanza. Qui mi indicò un punto in lontananza.

Nell’angolo più lontano, un folto gruppo di persone, all’in piedi sopra un palco, rideva. Non appena ci avvicinammo quasi tutti si voltarono verso di noi, interrompendo quella finta ilarità collettiva. Mutsohito li salutò sollevando un braccio e quasi tutti lo imitarono. Non avevo mai visto prima di allora così tante persone, nel medesimo posto, con una faccia tanto distesa. Era un gruppo misto; uomini e donne, di età differenti, vestite con abiti terrestri. I loro volti emanavano serenità, in netto contrasto con la mia predisposizione d’animo. Continuavo a chiedermi perché mai fossi finito in un posto del genere. Mutsohito mi avvicinò la bocca all’orecchio consigliandomi di mostrami cordiale con loro.

Così sollevai il braccio e salutai a mia volta quelle persone.

Poi, io e lui ci mettemmo in disparte e assistemmo a quella prova così bizzarra. Incominciò la parte di gruppo alla nostra sinistra. Un uomo in mezzo a loro, sollevando la mano, diede l’attacco e tutti cominciarono a ridere; ognuno cercò di produrre quanto meglio poteva una risata grassa, e piena di gioia. La risata collettiva cessò all’improvviso, come una corda tesa recisa di netto da un colpo di forbici, e attaccò la parte centrale del gruppo; quando pure questo cessò, attaccò a ridere il gruppo di destra. Quindi, si cominciò tutto daccapo. Sempre quella risata. Sembrava un’onda in uno spettacolo comico condotto dagli spettatori; l’ilarità era una marea che prendeva vita, cresceva a dismisura fino a venire a travolgerti i sensi.

Al termine della prova, Mutsohito chiamò con un cenno della mano una ragazzina nella parte destra del gruppo. Era talmente alta e così smilza che per certi aspetti mi ricordava una specie di arbusto. Ci presentammo; lei mi strinse la mano mollemente e disse: Helena, molto lieta. Il giapponese le spiegò che ero un nuovo arrivato e le chiese il favore di darmi qualche suggerimento prima di poter essere introdotto nel gruppo. La ragazza disse che non c’erano problemi. Mi spiegò la loro tecnica in meno di dieci minuti e il giorno successivo ridevo anch’io, in un modo molto sgraziato, sentendo l’energia prendere corpo e circolare allegramente nel mio stomaco.

Con Helena strinsi una sincera amicizia. Aveva sedici anni e mezzo ed era americana. L’altezza, i lunghi capelli biondi e gli occhi verdi la facevano somigliare per certi aspetti ai Pleiadiani. In genere, il pomeriggio – durante uno dei tanti punti morti della nostra giornata – passeggiavamo a lungo nel corridoio dell’edificio delle prove. Per me quello era l’unico momento buono di tutta la giornata, perché camminare mi faceva sentire a mio agio. Anche Helena, come Mutsohito e numerosi altri terrestri su Merope, era felice di trovarsi in quel posto. Infatti, con un bel sorriso mi disse: È bello avere uno scopo preciso nella vita. Però, dal tono usato e dall’espressione del suo volto, ebbi la sensazione che lei fosse stata in qualche modo indottrinata da qualcuno a dire così.

Un giorno, durante una di queste passeggiate, mi chiese: Come mai, Elido hai sempre un’aria così triste?

Le risposi con un’altra domanda: Me lo spieghi perché mai devo stare qui? E le confidai che mi mancava il mio vecchio lavoro, le mie abitudini e al contrario degli altri, ridere in gruppo, spesso mi faceva sentire stupido. In più, a pranzo e a cena, dovevamo mandare giù dei grossi semi, simili a quel mangime striato che si dava agli scoiattoli, e bevevamo soltanto quell’orribile acqua grigia. Sì, era vero, avevo sempre un’aria così triste.

Devi essere felice, mi disse Helena, perché possiedi qualcosa che questa razza superiore non ha mai avuto. I Pleiadiani non sapevano ridere, e il suono della nostra risata era contagioso, coinvolgente. E ridere era una gioia. Lo stomaco pulsava, e ballava. Per quel popolo la nostra allegria era come il sole che sorgeva al mattino. Il progetto del Contagio Felice puntava a dare ai Pleiadiani energia. Quando udivano le nostre risate, il fluire del loro pensiero si arrestava di colpo, e loro amavano particolarmente far scomparire a tratti la propria mente. La risata era lo spettacolo più divertente che si fosse mai visto su Merope.

Una mattina Mutsohito venne nella mia stanza. Il progetto del Contagio Felice ha luogo domani sera, mi disse.

Fummo scortati da alcuni Pleiadiani all’interno di un edificio in stile georgiano. Il Teatro della Città. Il palazzo era l’opera di un gruppo di uomini che aveva fatto dono, in un’epoca lontanissima, al popolo extraterrestre delle nostre profonde conoscenze architettoniche.

Il nostro gruppo salì sul palco, e ognuno prese posizione; poi uno nel gruppo diede l’attacco e a turno cominciammo a ridere. L’onda aveva preso vita, la marea crebbe a dismisura. Ridemmo tutti sino allo sfinimento. I Pleiadiani ci guardavano come rapiti e, influenzati, si rilassarono, annullando per qualche ora tutti i pensieri della loro mente.

Li mandammo in delirio.

Fu uno spettacolo davvero favoloso.

Per loro e per noi.

Presi parte a quel progetto per diverso tempo, poi come promesso i Pleiadiani mi rispedirono di nuovo a casa. Ero esausto di ridere. Sulla Terra, intanto, eravamo già a metà degli anni ’70. Penso che dalla mia mente tale esperienza sia stata in qualche modo non completamente rimossa, perché ho cominciato a ricordare questo viaggio interplanetario soltanto diversi anni dopo; i ricordi sono affiorati a poco a poco e quando ho ricordato tutto, ho sentito l’esigenza di dover raccontare a qualcuno la mia esperienza; sono molto vecchio, caro ragazzo, e non credo davvero di poter vivere ancora a lungo.”

Lascia cadere il discorso, Elido. Abbassa la testa puntando lo sguardo verso un punto imprecisato del pavimento. Lo osservo. Per svariati attimi, il riflesso della sua sagoma ondeggia nel vetro di una finestra. Agita lentamente la testa. È immerso nei vividi ricordi del suo racconto. Per lui, probabilmente, l’esperienza è come se fosse accaduta soltanto pochi minuti prima e non settant’anni fa.

 

Alfredo Perna
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Author: Alfredo Perna

Alfredo Perna (Napoli, 1976) si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università Federico II. Tra i suoi interessi: la letteratura, il cinema e l’arte. Dal 2012 collabora con gli Alieni Metropolitani, pubblicando racconti e recensioni.

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