Tempo fa smontavo dal servizio e tornavo a casa percorrendo la residenziale. Il traffico scorreva regolare fino al momento in cui un’auto che mi precedeva, non facendo in tempo a frenare, andò a collidere un’altra macchina che gli tagliò la strada.
Mi piacerebbe raccontarvi certe cose che ho fatto.
Era giugno. Un anomalo cielo grigio era diventato una cappa di piombo e faceva caldo. La portiera di quella macchina si è aperta e ne è sceso un uomo. Poteva avere sui sessanta, sessantacinque anni. Si spostava chinato, tenendo lo sguardo fisso nel punto in cui la sua auto aveva impattato e sempre piegato si è avvicinato al paraurti. Ci ha passato sopra due dita. Era un vecchio tipo di Golf metallizzata, sinistramente luccicante nel riverbero opaco del cielo; a bordo con lui viaggiava una signora con i capelli tinti di biondo. La moglie, pensai.
Quell’altro, invece, per qualche minuto non è sceso dal suo abitacolo. Ha continuato a stringere forte le mani attorno al volante e ad imprecare. Era un ragazzo bello grosso con due occhi spiritati incastonati in un volto tutto arrossato. Sembrava un barile di benzina sul punto di esplodere.
Ad un certo punto si fece una lunga colonna di auto dietro di noi, e certi incominciarono a suonare nervosamente. Un tizio con dei baffi spioventi, che assomigliava in modo assurdo ad uno di quegli attori che impersonano di solito il ruolo dello sceriffo nel Far West, si sporse dall’abitacolo e gridò di fare passare. Ma l’uomo anziano ha continuato a strofinare più volte la mano sopra il paraurti. Voleva capire se era successo qualcosa di irreparabile alla sua macchina. Sembrava che la volesse pulire per come accarezzava la plastica.
Poi, rivolgendosi al ragazzo, ha detto: “Mi sei venuto addosso.”
A quel punto pure il ragazzo è sceso dalla macchina. Aveva una di quelle piccole automobili che si prendono i ragazzi quando non hanno ancora la patente. Una microcar. Si è avvicinato all’uomo e gli ha premuto l’indice sul petto, l’ha spostato all’indietro di diversi passi e gli ha detto che la colpa non era sua. Aveva inserito la freccia e doveva passare per primo.
“Lascia perdere,” ha subito detto, chinando la testa e cercando con lo sguardo l’uomo, la donna che stava dal lato del passeggero. Aveva probabilmente avvertito l’odore di pericolo che tirava nell’aria. “Andiamocene via.” La signora era diventata all’improvviso pallida come uno che ingoia inavvertitamente un sasso e non sa ricacciarlo fuori.
Quindi il ragazzo ha staccato il dito dall’uomo e, come per imitarlo, è andato a passare una mano sopra la parte della sua carrozzeria colpita. Ha accarezzato la macchinina così come avrebbe fatto una bambina con la sua bambola preferita. Lisciandola e strofinandola come per fargli passare un dolore.
All’uomo non andava di lasciar perdere. Nel momento in cui ha aperto il cruscotto, e cacciato carta e penna, la donna ha protestato ancora, gli ha stretto un braccio e gliel’ha scosso per un po’. Ma evidentemente il naso dell’uomo non avvertiva gli odori di pericolo. Ha tirato di nuovo la testa fuori dell’abitacolo dicendo al ragazzo di scambiarsi i dati. Voleva fare una lettera all’assicurazione.
È stato a quel punto che il ragazzo ha perduto quel poco di pazienza che aveva. Gli è salito tutto il sangue alla testa – il barile di benzina s’è incendiato ed è esploso – ed ha cominciato a far volare gli schiaffi.
Ho visto quell’uomo incassare un sacco di colpi senza saper reagire. La testa rimbalzava all’indietro dopo ogni schiaffo e se tentava di chiudersi le braccia dinnanzi la faccia per ripararsi, il ragazzo gliele allargava un’altra volta, in modo da tornare a colpirlo senza pietà; ho visto, per un bel po’, la testa dell’uomo continuare a rimbalzare all’indietro per poi ricadere in avanti.
Mi diede l’impressione di un giocattolo nelle mani di un bambino capriccioso.
Vidi quella cosa, senza intervenire.
Come altri automobilisti incolonnati nel traffico rimasi lì con la curiosità di chi si chiede cosa sarebbe successo dopo. In parecchi scesero dalle macchine. Pure l’uomo con i baffi da sceriffo che all’improvviso non aveva più fretta. Ci godemmo lo spettacolo gratis, con aria indifferente. Tutti vedemmo il ragazzo, che aveva al massimo sedici anni, picchiare quel vecchio mentre tentava di ripararsi in macchina. Vedemmo la donna bionda seduta dal lato del passeggero piangere, disperarsi e continuare a chiedere aiuto. Dal naso dell’uomo usciva sangue così, e il ragazzo infieriva. Ogni qual volta l’uomo cercava di risalire in macchina, il ragazzo teneva la portiera aperta, tirava l’uomo verso di sé e lo colpiva. In un certo modo era come se avesse dovuto portare a termine un lavoro.
Questa è la cosa che ho visto.
Poi, quando tutto è finito, ho smesso di guardare, ho ingranato la marcia e sono andato via. Ecco un’altra cosa che ho fatto.
Non so se adesso le cose si sono messe un po’ a posto, ma in quel periodo mi sentivo depresso, non avevo voglia di frequentare nessuno e con il lavoro andava abbastanza male. Ero esausto per gli anni sprecati tra pattugliamenti, arresti e distintivi. Sentivo il bisogno di un periodo di tempo per riflettere su cosa fare di me. In quell’epoca la mia bocca s’era allargata senza nemmeno che me accorgessi; non perdevo mai occasione per dare aria ai polmoni, e non mi rendevo proprio conto di ciò che dicevo. Parlavo soltanto di bombe, di pistole e di teste che dovevano saltare per aria. Mi erano successe alcune cose in quel periodo. La prima, era che avevo pensato di dare le dimissioni in polizia e trovarmi un lavoro diverso. Due, mia moglie Maria se ne era andata a convivere con un altro uomo. Si chiamava Antonio De Cicco e aveva due bambini piccoli. Questo De Cicco era un violento e una volta aveva mandato l’ex moglie all’ospedale. Non riuscivo proprio a spiegarmi per quale ragione Maria se ne fosse andata a vivere con un tipo come lui.
Una volta provai a telefonarle. Volevo che mi dicesse perché mi aveva fatto una cosa così, e proprio con quell’uomo. Glielo dissi pure, guarda che quello è uno violento, lo devi lasciare, o una cosa così. Ad un certo punto della chiamata sentii un parlottare confuso, ed un rumore misterioso. Quindi all’apparecchio venne lui e mi gridò che se telefonavo un’altra volta a mia moglie, mi avrebbe pestato a sangue. Non mi arrabbiai, né niente. Stranamente rimasi calmo; mi sentii avvolto in una specie di stato di grazia, come un monaco buddista. Con voce pacata, lineare, gli dissi: “De Cicco, dimmi solo dove dobbiamo vederci. Ho la pistola, io. Tienilo a mente!” E attaccai.
Questi erano alcuni fatti che mi erano capitati.
Senza che potessi farci niente. Come fai a fermare certi eventi? Facevo trentasette anni il prossimo 25 novembre e avrei continuato per un bel po’ a fare il poliziotto.
Successe quattro giorni dopo lo spettacolo, se mi passate ancora la definizione. Non mi ci volle più di qualche secondo per riconoscerlo. Ero affacciato alla finestra a fumare e lo vidi improvvisamente uscire dal portone del palazzo di fronte. Io e il ragazzo abitavamo nello stesso condominio. Ma giuro su Dio che non ci avevo mai fatto caso prima d’allora.
Fu una scoperta che smosse di un poco la mia indifferenza. Anzi non la smosse semplicemente; adesso che ci penso, la fece tremare come un’intensa scarica elettrica.
Camminava tranquillo. Teneva le mani affondate nelle tasche del jeans e avanzava placido, come se in vita sua non avesse mai alzato le mani su nessuno. Ogni tanto si fermava, e si aggiustava i capelli negli specchietti delle auto, o chinava il corpo e sputava a terra.
Per circa quattro giorni mi era affiorata alla mente quella cosa; tanta gente ferma per strada a godersi uno spettacolo gratis. Il senso di colpa di non essere intervenuto, l’aver spezzato un vecchio giuramento, m’aveva assillato quasi in ogni momento della giornata. Io di cose strane ne avevo viste parecchie. Quando ero più ragazzo, mio fratello si era chiuso in bagno ed aveva tentato il suicidio bevendo acido da una bottiglia. Voglio dire, anche in polizia ne avevo viste tante di cose strane. Ma chissà perché questa mi aveva colpito più di tutte.
Mi continuava a tornare in mente l’immagine di quella testa che rimbalzava avanti e indietro, mentre il ragazzo infieriva. Dava schiaffi dal basso in alto, e dal naso dell’uomo fuoriuscivano due fiumi di sangue, due rigagnoli di un rosso denso. Tutti avevano avuto paura di intromettersi nella faccenda. Io, per prima, ero restato a guardare con indifferenza il sangue che gocciolava sul colletto della maglia del vecchio.
Stesso quella sera, sul tardi, gli chiesi i documenti. Il condominio era deserto. Lui non lo sapeva io chi fossi. Mi fissò, con due occhi arrossati e leggermente cerchiati di nero. L’avevo aspettato per più di due ore seduto nell’ingresso del suo palazzo; dall’espressione della sua faccia notai che non se l’aspettava una cosa del genere. Non ne capiva la ragione.
“Ma tu chi sei?” mi disse. “Perché?” Teneva lo sguardo seminascosto dalla frangetta dei capelli.
“Per primo mi dai del lei” dissi mostrandogli il pollice, e aggiunsi: “E due quando ti rivolgi a me non devi guardarmi mai in faccia, hai capito?” Gli misi sotto il naso il tesserino della polizia.
Era un periodo in cui mi ero prefisso di sistemare parecchie cose nel mondo. Per esempio, una cosa da mettere a posto era questa. Dare una lezione a chi si credeva più forte degli altri. Poi, dopo di qua, sarei passato pure da De Cicco e, anche se non sapevo ancora come, l’avrei fatto fuori. Glielo avevo giurato.
Il ragazzo vide il documento e si convinse. Si scavò dentro una tasca e io approfittai di quel suo momento di distrazione per dargli un calcio, forte, in mezzo alle gambe.
Tutto questo successe non tanto tempo fa; un anno più o meno.
A quella epoca abitavo a Barra, al Corso IV Novembre, al piano terra, all’interno di un popoloso condominio con un cortile dismesso alle spalle. Il mio era un piccolo appartamento e tutto era immerso nella confusione. Tenevo sempre bicchieri e vestiti sporchi dappertutto. Non me ne importava di niente, nemmeno di me stesso, figuriamoci della pulizia domestica. Passavo la maggior parte del tempo per strada anche quando non ero in servizio. Mi piaceva fermarmi nei bar a farmi qualche birra e a scommettere sulle squadre di calcio. E quando non c’erano le partite perdevo un sacco di soldi ai video poker.
Quello, per esempio, era stato anche un periodo di scommesse.
Una sera di febbraio mi caricai in macchina una ragazza. Poteva avere pure lei sui diciassette o diciotto anni. Faceva l’autostop all’imbocco dell’autostrada per Salerno. Mi fermai e le feci segno di salire. Montò in macchina senza farsi troppi problemi.
“Dov’è che vai?” le chiesi mentre imboccavo l’autostrada.
“Tu dov’è che puoi portarmi?” mi disse lei.
Dove vuoi, le dissi.
Aveva un grosso zaino che aggiustò sul sedile di dietro. Me lo indicò. Dentro c’aveva messo tutta la sua roba; dei vestiti, della biancheria intima, alcuni cd e un volume sulla pittura contemporanea. Voleva fare la disegnatrice. Se ne stava andando di casa, mi confessò, perché non sopportava più la sua famiglia. Odiava allo stesso modo la madre, il padre e il fratello minore.
A dire il vero, non sopportava più nessun individuo. “Il genere umano fa schifo”; così mi disse.
“Forse la tua famiglia morirà di paura se non torni a casa”, le dissi. Stava ancora in tempo; sarei tornato indietro e l’avrei riaccompagnata.
Ma lei scosse forte la testa, come se avesse subito una improvvisa serie di colpi all’altezza delle tempie. Non gliene fregava niente, disse. Erano degli stupidi.
Feci di sì. “E hai pensato a come vivrai?”, le chiesi. “Come ti procurerai da mangiare?”
Lei alzò le spalle. Non lo sapeva ancora, ma di sicuro qualche cosa avrebbe pensato. Ad esempio era molto brava a disegnare; avrebbe fatto dei disegni e li avrebbe venduti all’angolo della strada. Qualche cosa avrebbe inventato, ne era convinta. Adesso le premeva solo di mettere quanta più strada poteva tra lei e la sua famiglia. Aveva mille progetti. “La vita è fatta per essere vissuta”. Usò proprio questa frase.
Feci ancora di sì. Mi diede l’impressione di una persona immatura, non consapevole dei propri limiti. Ecco che cos’era lei. Ad un certo punto del viaggio le chiesi una cosa. Le chiesi che cosa avrebbe fatto se io fossi stato uno squilibrato.
La ragazza si mise a ridere e disse che non era possibile. Io ero una brava persona, mi pare che disse. Restammo in silenzio, continuai a guidare. Poi qualche minuto dopo tornai a chiedere quella cosa. Che cosa avrebbe fatto se io fossi stato uno squilibrato. Così feci una cosa proprio brutta. Le puntai la pistola d’ordinanza alla tempia.
“E adesso che fai?”, le domandai. Avevo perso il controllo.
La ragazza sgranò gli occhi, e cominciò a piangere. Non poteva credere che le stesse succedendo quella cosa. Mi pregò di non ucciderla. Disse che mi avrebbe dato tutto quello che aveva dentro lo zaino. Addosso teneva più di duecento euro, mi confessò. “Ti prego fammi vivere”, mi disse. Ho paura di morire, o una cosa così. Feci giusto qualche altro chilometro, poi alla prima piazzola di sosta mi fermai e la feci scendere dalla macchina. “Scommetto che adesso non vorrai più scappartene di casa, ho indovinato?” Feci una risata amara; poi, aprii lo sportello e la abbandonai sull’autostrada col suo zaino e tutta la paura che le avevo messo addosso.
Questa fu una delle cose su cui scommisi in quel periodo.
Fino a che non feci quest’altra cosa.
Prima di trascinarmelo di sopra ho colpito il ragazzo con il calcio della pistola. Era lì per terra che si toccava in mezzo alle gambe e l’ho colpito due volte, all’altezza della tempia. Ho creduto di ammazzarlo. Ho sentito il rumore molle della carne a contatto con il ferro. Poi non si è più mosso. Sulla carta d’identità c’era scritto che si chiamava Salvatore Nocerino e aveva sedici anni. Non si è svegliato nemmeno quando involontariamente gli ho fatto sbattere la testa contro uno stipite di una porta mentre lo portavo in bagno.
Non so che cosa mi passasse per la testa in quel periodo.
Non avrei mai creduto di riuscire a fare una cosa del genere. Però l’ho fatta. In quel periodo tenevo per la testa certe idee. Pensavo, ad esempio, che se la gente sbagliava doveva essere raddrizzata. La gente che dava fastidio mi piaceva definirla il “fattore inquinante”. Non so se può esistere una definizione del genere.
Lo poggiai nella vasca da bagno tenendolo per sotto le ascelle. Prima di chiudere la porta a chiave lo ammanettai per dietro la schiena, gli legai i piedi col filo di ferro, e lo imbavagliai. Alla fine, me ne andai in giro per casa a riprendere fiato. Mi feci un caffè. Andai a prepararmelo in cucina. Cercai una tazzina in mezzo ai piatti e alle pentole sporche, aprii il rubinetto e ci feci scorrere l’acqua dentro.
Non riuscivo a decidere su ciò che gli avrei fatto non appena si fosse svegliato. Credevo che quel ragazzo chiuso dentro il bagno fosse cattivo. Qualche giorno prima aveva alzato le mani su una persona anziana e infierito perché quell’uomo non era in grado di difendersi. E per essere un ragazzo di sedici anni sapeva picchiare bene.
Lo spogliai tagliandogli la maglietta con le forbici. Poi, aprii il rubinetto e lo svegliai con l’acqua bollente. Mi accesi una sigaretta e me lo misi a fissare per un po’ mentre incominciava a lamentarsi. Si torceva come un verme mentre una scia di sangue gli scendeva sopra un orecchio.
Salvatore. Pensavo al quel nome mentre finivo la sigaretta. Salvatore. Come mio fratello più grande che si era ammazzato con l’acido. Ricordo che in ospedale i medici scossero la testa e mi dissero che non c’era più niente da fare.
Non mi volevo convincere ad adattare quel nome ad una faccia da criminale come quella. Salvatore. Che cosa me ne dovevo fare del suo corpo quando avrei finito di farlo a pezzi? Pensavo a questo genere di cose mentre giungevo alla conclusione che l’avrei fatto fuori. Gettai la sigaretta nel water e andai in cucina a cercare il coltello più grosso che tenessi in uno dei cassetti, mentre il ragazzo andava avanti a torcersi e perdere sangue da un orecchio.
Non credo che avesse ancora capito quello che gli stava per capitare.
Mio fratello morì in ospedale, incosciente, sette anni fa. Era una sera calda, sul finire dell’estate. Aveva trentatré anni. Tornò dall’officina con i vestiti pieni di grasso, un giornale sotto il braccio, ed una faccia. Io staccai per un attimo gli occhi dal televisore, lo guardai e gli chiesi se tutto andava bene. “Che c’hai, Salvatore?” ricordo che gli chiesi.
Dividevamo lo stesso appartamento da quando eravamo diventati orfani.
Lui non mi disse niente. Rimase sulla soglia a fissarsi la punta delle scarpe, poi se le tolse e disse che andava in bagno a farsi la doccia. Ricordo che non gli risposi niente. Invece, avrei dovuto intuire perché lui facesse una cosa simile.
Si diresse in bagno, sentii la porta chiudersi, e l’acqua che cominciava a scorrere. Girai la testa e continuai a guardare lo schermo, con la vaga consapevolezza che lui si stesse lavando. Piuttosto, avrei dovuto capire quella faccia.
Ma non l’avevo capita. Così, lui buttò la testa all’indietro e si bevve mezza bottiglia d’acido. Non seppi mai spiegarmi la ragione di quel gesto. Nessuno me lo sarebbe mai venuto a spiegare.
“Salvatore” gli sussurrai non appena aprii la porta del bagno. Il ragazzo sgranò gli occhi quando gli agitai il coltello davanti la faccia. Gettò un rumore soffocato sotto il bavaglio.
Continuò a divincolarsi come un verme. Era solamente un ragazzo. Comunque, alla fine, credo che l’avesse capito perché fosse finito in quella vasca da bagno. Mentre lo torturavo gli narrai, serrando forte le mascelle, un poco della storia del vecchio schiaffeggiato in mezzo al traffico. Poi, alla settima pugnalata smise. Non si contorse più, senza chiudere gli occhi.
E soltanto in quel momento ebbi l’impressione di essere riuscito a mettere un po’ a posto le cose.
Alfredo Perna [email protected]