Racconto breve scritto e proposto da Marco Rinaldi
Ieri sera ho sognato che mi mangiavano i vermi.
Ero disteso su un lettino, mani e polsi incatenati, in una stanza ovale fredda, con le pareti verdi come il pavimento.
Ero nudo. Di fronte a me c’era un vetro e dietro quel vetro c’eri tu, con un camice verde a scrutarmi pensosa. Avevi quell’espressione che di solito hanno le mamme quando aprono il freezer e devono decidere quale verdura scongelare. Solo che ora tu osservavi i miei organi vecchi di quasi trent’anni.
Li analizzavi.
Intanto i vermi erano arrivati quasi al ginocchio. Masticavano in silenzio. Si erano mangiati tutti i polpacci e non vedevano l’ora di arrivare all’addome. Non sentivo alcun dolore. Nessuno dovuto all’azione dei vermi almeno, perché vederti osservarmi immobile mentre venivo divorato da minuscoli mostri giallastri faceva molto più male di qualsiasi amputazione senza anestesia. Non solo non facevi nulla, ma eri interessata al fenomeno. Lo volevi approfondire ma non potevi avvicinarti di più perché poi la tua anidride carbonica avrebbe appannato il vetro e avresti visto solo nebbia, la nebbia di Ferrara. Mi guardavi con gli occhi dello scienziato che ogni tanto ti avevo già visto indossare, solo in occasioni meno sanguinolente, magari.
Poi premevi un pulsante e qualcuno sfondava le porte verdi ed irrompeva. Decine di uomini grandi con tute e maschere. Aspiravano tutti i vermi con degli enormi aspirapolvere, tranne quelli che erano a contatto con la carne. Quelli andavano bruciati con una specie di fiamma ossidrica. Tanto io ero distratto dal dispiacere che avvertivo a causa tua e del tuo oscuro scrutarmi. Non provavo alcun dolore fisico, ogni sensazione dolorosa era sovrascritta da quella principale, da quel vederti vedermi con piglio professionale e asettico mentre diventavo ufficialmente un handicappato, o forse mentre morivo facendo da cibo in questo macabro picnic.
Dopo qualche secondo i vermi erano tutti spariti. Vedevo gli operai lavorare sui miei arti inferiori, saldare e dissaldare come ossessi. Sudavano. Avevano le maschere, ma me ne accorgevo dagli occhi. Il pavimento era ricoperto del mio sangue. O forse era il soffitto, non lo so. Girava tutto. Dopo un po’ questi uomini si sono guardati. Hanno scosso la testa e poi guardato oltre il vetro.
Tu hai fatto un cenno e dopo un attimo gli operai sono usciti per farti spazio. Ti ho vista entrare con qualcosa di piccolo in mano. Mi sembrava camminassi sul soffitto. Hai guardato il mio corpo a lungo. Nel frattempo, la superficie della mascherina che avevi sulla bocca andava su e giù molto velocemente. Mi hai guardato negli occhi ancora una volta, poi mentre ti avvicinavi ti sei tolta la maschera e mi hai sussurrato una data, la data in cui tutta questa precarietà avrà fine, quando questa incertezza terminerà e i cattivi andranno in prigione e Italia 7 riavrà le sue frequenze e il Parlamento riuscirà a smentire con sdegno l’esistenza di una nipote di un presidente egiziano o quel che è.
Un attimo dopo il rumore delle ambulanze romane era più reale di ogni altra cosa e le lenzuola erano sudate, ammassate in un angolo del mio letto. Era il primo ottobre ma il caldo era soffocante. Come se con il sudore i miei pori avessero traspirato anche questo sogno che ora era nell’aria stantia della camera. Questo mio sogno che, come adesso sai, ricordo in tutti i dettagli tranne per quell’ultima data tanto attesa che mi avevi rivelato e che non mi tornerà mai in mente, e forse è meglio così perché ho la sensazione che non sia un giorno così vicino.
Poco dopo mi sono alzato per una doccia fredda – un’altra ancora, sì – e ho visto strani segni rossi su polsi e caviglie. Ma, soprattutto, avvertivo un enorme incessante formicolio alle gambe che sembrava aumentare sempre di più.
Ancora adesso sta crescendo.
È come avere milioni di millepiedi su un tapis roulant. Mi mancate ragazzi, pensavo anche adesso, e pensavo anche che avrei dovuto chiamare il prima possibile qualcuno di loro, o forse il mio atipico medico di base che di sabato fa pure le visite a domicilio, pensa un po’, e cerca le cuffie da portare in dono ai poveri, ed il suo voto ha lo stesso peso di quello di Cesare Previti, questa è la democrazia a cui dobbiamo abituarci. Ci sono quelli come lui, dunque, e quelli come te, che nei miei sogni guardano una candela spegnersi mentre si limano le unghie e scavalcano le file dei taxi.
Nel frattempo il tempo reale scorreva afono ed io dovevo uscire a cercare un lavoro. Ho indossato l’accappatoio e sono tornato in camera. L’ultima cosa che ricordo è che sono rimasto lì, davanti allo specchio, a fissare i miei lividi e i miei formicolii per un tempo imprecisato. Proprio lì, davanti a quello specchio appeso alle pareti.
Le mie adorate pareti verde speranza.
Marco Rinaldi