Recensione di Ilaria Bonfanti
L’essere una “aliena metropolitana”, ancora una volta, mi ha messa di fronte a una sfida: recensire un testo teatrale. Un testo teatrale di un autore difficile almeno quanto geniale, Samuel Beckett.
Uno dei maggiori esponenti, per non dire il principale, del Teatro dell’Assurdo; scrittore, poeta e drammaturgo, Beckett è sicuramente uno di quegli autori che non permettono distrazioni.
L’opera in questione, “L’ultimo nastro di Krapp”, è un atto unico in cui il protagonista, Krapp, riascolta una sua vecchia registrazione diaristica fatta trent’anni prima. L’ascolto avviene con una certa complessità, facilmente percepibile dai comportamenti dello stesso. L’entusiasmo e la forza vitale del passato vengono scacciati dalla delusione del presente, dalla consapevolezza di non essere riuscito a dare un senso alla sua esistenza come uomo e come artista.
Un artista appunto, un clown per l’esattezza, che lo scrittore ci descrive così:
“Calzoni stretti e troppo corti, d’un nero ingiallito. Panciotto d’un nero ingiallito, quattro capaci tasche. Grosso orologio d’argento con catena. Camicia bianca, sudicia, aperta sul collo e senza colletto. Un paio di stupefacenti stivaletti bianchi, molto sporchi, strettissimi e appuntiti, d’una misura spropositata, almeno 48. Faccia bianca. Naso paonazzo. Capelli grigi in disordine.”
Le risate ironiche, l’amarezza di fondo e la presa di coscienza di come aver rinunciato a un amore abbia pregiudicato la sua felicita, accompagnano l’opera dal principio fino alla sua conclusione. I cenci di un vecchio clown stitico e alcolizzato cercano invano di odiare un passato vigoroso ma ingenuo, tanto da condurlo a una fine disastrosa, tanto da lasciarlo a fissare il vuoto di un nastro ormai concluso.
Confrontarsi con un testo teatrale, per me, abituata a narrativa o a saggistica, è stato piuttosto complesso ma di certo affascinante. Confesso che a una prima lettura è seguita una sensazione di spaesamento: non sapevo assolutamente come muovermi ma, le riletture successive mi hanno aiutata a capire meglio l’importanza e il significato delle uscite di scena, dei silenzi e dei cambi di tono. Aspetti decisamente fondamentali per cogliere a pieno il senso di un’opera teatrale.
Comprendere a pieno un testo di questo tipo significa entrare nel teatro insieme a Krapp e al suo autore ed assistere come spettatore attivo a quella che è la magia di una rappresentazione.
La genialità di Beckett viene palesata in tutti gli aspetti; sia nella ripetizione meccanica di alcuni gesti “assurdi”, come il fantastico passaggio della banana nel cassetto, sia nella poesia di alcune frasi del monologo, una su tutte: “Le ho chiesto di guardarmi e dopo pochi istanti… (Pausa)… dopo pochi istanti lo ha fatto, ma gli occhi erano due fessure per via del sole. Mi sono curvato su di lei per farle ombra e allora si sono aperti. (Pausa. A voce più bassa) M’hanno fatto, entrare. (Pausa)…”.
La conclusione di questa recensione sta tutta nella figura del vecchio Krapp, nei miei ringraziamenti a questo personaggio che non avrebbe potuto essere più alieno e metropolitano di così e che mi ha fatto venire voglia di incontrarlo nuovamente, ma nel suo habitat naturale: il teatro.
Ilaria Bonfanti