Recensione di Andrea Corona
«Interno borghese inglese, con poltrone inglesi. Serata inglese. Il signor Smith, inglese, nella sua poltrona e nelle sue pantofole inglesi, fuma la sua pipa inglese e legge un giornale inglese accanto a un fuoco inglese. Porta occhiali inglesi; ha baffetti grigi, inglesi. Vicino a lui, in un’altra poltrona inglese, la signora Smith, inglese, rammenda un paio di calze inglesi. Lungo silenzio inglese. La pendola inglese batte diciassette colpi inglesi».
Sin dalla prima indicazione testuale, è chiaro come La cantatrice calva sia un’opera che merita di essere letta, e non soltanto vista. Se per Carmelo Bene il copione si riduceva spesso a residuo escrementizio della prassi attoriale, in quanto destinato ad essere sconfessato sulla scena, l’elemento scritto di questa particolare opera non è un mero surrogato dell’azione. Se la poetica di Eugène Ionesco si esprime attraverso una «anticommedia», non è paradossale allora che gli spettatori dell’epoca non ridessero o addirittura non presenziassero alle prime rappresentazioni. Eppure, fra gli autori di quella cosiddetta avanguardia odierna francese (ovvero quella “non-scuola” che, a detta dei critici del secondo dopoguerra, annoverava fra gli altri Beckett e Sartre), Ionesco era l’autore maggiormente dotato di un gusto per il comico. Basti pensare all’umorismo nero di certe battute, che nella fattispecie non va inteso però come una semplice strategia utile a rendere comico ciò che è tragico. Come nella famosa sequenza relativa alla morte di Bobby Watson, descritto come «il più bel cadavere della Gran Bretagna!» e come «Un vero cadavere vivente».
All’apparenza nonsense, La cantatrice calva veicola al contrario un senso forte, un senso che sta proprio nel mostrare il non-senso della vita borghese nelle società attuali. Che il nome stesso di Bobby Watson venga ripetuto all’infinito, sino a designare tutti i componenti di un’intera famiglia, siano essi uomini o donne, sta a significare che oggi parliamo molto, incessantemente, ma non riusciamo neanche più a distinguere una persona da un’altra, un adulto da un bambino, o un uomo da una donna, proprio come avviene nelle odierne chat-room. Pubblicare un testo zeppo di frasi fatte, espressioni del linguaggio familiare e luoghi comuni, e portare questo testo sulla scena, è un’operazione che appare inoltre come un’anticipazione ante litteram di quel che facciamo quando postiamo qualcosa sulla parte pubblica dei social network: anziché prestare maggiore attenzione alle parole, è proprio quando siamo “sulla scena” che tendiamo ad esibirci, e a farlo a loop, in vaniloqui e turpiloqui senza via d’uscita.
La cantatrice calva, in ciò, anticipa in forma germinale, ma perciò stesso più essenziale, una poetica che tornerà nelle opere successive di Ionesco. Se questa anticommedia si conclude con la riproposizione della scena iniziale recitata da un’altra coppia, i Martin (una riproduzione perfettamente standardizzata degli Smith), la stessa cosa avverrà nell’opera dell’anno successivo, La lezione, del 1951, che pure si chiude con un ritorno al punto di partenza. E ancora, se i coniugi Smith traggono delle deduzioni arbitrarie, prive di ogni fondamento, dalle loro conversazioni (come nella scena relativa al medico, e nella quale, attraverso una serie di assurde associazioni fra medici e capitani di mare, e fra malati e navi, si deduce che «tutti i medici sono ciarlatani. E anche tutti i malati»), ne Il rinoceronte, opera del 1959-’60, abbiamo il filosofo Parédès che, parimenti, asserisce «Tutti i gatti sono mortali. Socrate è mortale. Allora Socrate è un gatto».
Ma veniamo alla domanda fondamentale: se negli scritti su Ionesco sono generalmente rintracciabili due direzioni critiche – l’una tendente alla satira di costume e alla critica sociale, l’altra tendente a un interrogativo sull’assoluto e sul senso della vita in generale – quale lettura bisogna fornire? Secondo il parere di chi scrive, occorre operare una sintesi delle due tendenze, per scorgere in quest’opera una terza domanda comprensiva di entrambe. Ovvero: che senso ha l’esistenza in generale finché la vita si dipana in una quotidianità senza senso, scandita dai ritmi di pendole impazzite, dominata dal caos, dall’incomunicabilità e dall’alienazione agli altri e a se stessi?
Difficile a dirsi, certo è che, come ha scritto il critico Gian Renzo Morteo, «Lungi dall’attenuarsi, l’interesse che circonda la prima opera teatrale di Ionesco va indubbiamente aumentando con il passare degli anni».
Andrea Corona