Recensione di Giulia Costi
A porte chiuse (Huis clos in francese) ha avuto un’enorme eco quando venne rappresentata per la prima volta al Théâtre du Vieux-Colombier nel maggio 1944. Nonostante il positivo riscontro da parte del pubblico e della critica, Sartre dichiarò che, spesso, la sua pièce e, in particolare l’affermazione “L’enfer c’est les autres”, è stata fraintesa.
Due decenni più tardi, in occasione della registrazione audio dell’opera, Sartre chiarisce le intenzioni e i temi affrontati: il rapporto con gli altri, “la cristallizzazione” e la libertà.
A porte chiuse è la storia di Garcin, Estelle e Inès e della loro discesa all’inferno. Ma l’inferno sartriano non ha nulla a che vedere con l’iconografia tradizionale: al posto del diavolo, del fuoco e delle fiamme i tre personaggi vengono accompagnati dal Valletto, una sorta di Virgilio dantesco, in una stanza stile Secondo Impero senza specchi, senza finestre, solo una statua di bronzo e tre divanetti. Lo stupore è la prima reazione che i personaggi sperimentano appena varcata la soglia, quando capiscono che non c’è nessun boia e nessuno strumento di tortura ad attenderli, o almeno così credono.
Il punto di svolta, in cui l’inferno di Sartre si ricollega, anche se in minima parte, all’inferno classico, si ha quando Inès capisce che anche per loro è prevista la tortura e a infliggerla saranno gli altri due camerati. Ognuno è il boia per gli altri due. Per capire appieno questo concetto è opportuno ricordare che Jean Paul Sartre faceva parte della corrente filosofica dell’“esistenzialismo ateo” ed era, quindi, fautore della teoria secondo la quale, nell’uomo, l’esistenza precede l’essenza. L’uomo prima esiste, poi crea la propria essenza. Sartre sostiene che la conoscenza di sé avviene sempre mediante la conoscenza che gli altri hanno di noi. Ogni volta che ci giudichiamo, che tentiamo di definirci, lo facciamo sulla base dei mezzi che gli altri ci hanno dato. Questo spiegherebbe perché Garcin mendica l’amore di Estelle: gli occhi dell’innamorata nullificano le colpe, rendendo possibile a Garcin la catarsi. Ma questa opportunità gli viene negata.
Sempre nella registrazione audio del 1965, Sartre afferma che i tre personaggi messi in scena non sono simili ai lettori, in quanto morti, ma avverte che è possibile che la morte si realizzi anche in vita. È quello che accade a tutti coloro che rimangono “cristallizzati” in abitudini e comportamenti che essi stessi disprezzano, ma che non provano a modificare. Per Sartre “essere circondati dalla preoccupazione eterna di giudizi e di azioni che non si vogliono cambiare” è una morte in vita. Diventa essenziale, nell’ottica sartriana, sostituire delle azioni con delle altre azioni, perché il lettore, a differenza dei tre personaggi, è ancora vivo ed è ancora libero di cambiare. Sostiene Sartre che, in qualsiasi girone infernale siamo intrappolati, siamo liberi di fuggirne, chi rimane allora sceglie deliberatamente l’inferno.
“Meglio sbranato, meglio le frustate, meglio il vetriolo piuttosto che questa sofferenza di testa, questo fantasma di sofferenza che logora, che sfiora e che non fa mai abbastanza male”, Garcin e l’inferno sartriano.
Giulia Costi
13 ottobre 2013
Sartre è uno dei miei autori “classici” prediletti. La mia insegnante di liceo diceva che tutti dovremmo leggerlo almeno una volta nella vita.
Mi chiedo però due cose:
1. Esistono ancora autori come lui?
2. Se esistono, come sono visti dagli editor? Li pubblicherebbero mai?
14 ottobre 2013
Ciao Chiara e grazie per aver letto e commentato.
Io ti posso rispondere solo per come la vedo io e sulla base di alcune testimonianze che mi sono pervenute circa il panorama dell’editoria italiana di oggi.
Come avrai certamente notato, i libri che scalano le classifiche di vendita sono, ovviamente, quelle che hanno una fruizione di massa. L’equazione, che sempre più spesso si tende a fare, libro per le masse = libro indecente, non la trovo del tutto veritiera. Ci sono romanzi che hanno venduto milioni di copie e che hanno un certo spessore narrativo, stilistico e, perché no, morale. Purtroppo, non è sempre così, anzi. I libri che vendono di più, sono quelli “disimpegnati”, quelli che, secondo me, sono banali e cadono sempre nei soliti cliché. Quella è narrativa senza spessore e non è di certo letteratura.
Le case editrici hanno il compito di “vendere” un prodotto. Questa espressione suona strana agli amanti della letteratura (ma come? Un romanzo è un prodotto come il bagnoschiuma? O la lettiera del gatto?), ma è così. E se le masse si concentrano su libri di un certo tipo (senza fare nomi Moccia, Volo, Twilight, 50 sfumature ecc…), le case editrici, il cui scopo è lucrare, tenderanno a promuovere questo genere di narrativa, pubblicando libri “fotocopia” e tapezzando giornali e fermate degli autobus di pubblicità.
Gli autori che cercano di comunicare un messaggio tramite le loro opere, i libri “scomodi” da leggere, o più semplicemente, quelli che non attirano le masse passano in secondo piano. Alcuni di loro riescono ad ottenere contratti editoriali e vendite accettabili, altri pubblicano con piccoli editori locali, altri non ci riescono proprio.
Concludendo, è mia opinione che esistano ancora autori con la A maiuscola, ma proprio per questo loro pregio fanno fatica a pubblicare, a emergere e a farsi conoscere.