Racconto scritto e proposto da Carlo Guerini
Questa sera esco dall’ufficio prima del solito, intorno alle sette. Forse le sette sono già passate da qualche minuto, perché l’orologio dell’ufficio rimane sempre un po’ indietro. Comunque, ho finito di scrivere il mio pezzo per il giornale locale. E’ un pezzo su un omicidio avvenuto poco lontano dalla sede. Si pensa ad una rapina, al proprietario dell’appartamento che ha provato a difendersi e al ladro che l’ha ammazzato. La solita minestra che da queste parti si mangia almeno due volte al mese. Il contratto che mi lega al giornale è piuttosto singolare, devo scrivere un articolo al giorno, prevalentemente di cronaca nera o comunque qualcosa di quel tipo. Io non ci volevo nemmeno lavorare qui dentro, ma è stata la mia ex-moglie Beth a trovarmi questo buco, dopo che mi ero licenziato da una ditta di import-export. Lo stipendio non fa poi così schifo, mi permette di pagare l’affitto e starci dentro con le altre spese. Non mi posso concedere chissà quali divertimenti, ma non me la passo neanche male. Dal giorno che ho messo i piedi in questo ufficio sono cambiate un po’ di cose. Prima fra queste sono stato scaricato da mia moglie. Ho scoperto più tardi che mi tradiva da sei mesi con Frederick, quello che scriveva di economia e politica sul giornale. Poco dopo Fred, così lo chiamavamo al giornale, si è licenziato ed è diventato direttore della ditta di import-export presso la quale lavoravo. Appena l’ho saputo mi sono messo a ridere, poi mi sono fermato un attimo a pensare a quanto fosse strana tutta questa vicenda, e che in effetti non c’era proprio un cazzo da ridere. E così mi sono attaccato a una bottiglia di scotch. Da allora è un po’ un’abitudine. D’altronde parlar tutti i giorni di morti, incidenti e rapine porta anche a questo. Conosco un tipo, si chiama John, che lavora per la cronaca nera all’altro giornale della città, che ha il mio stesso vizio, così non sto a preoccuparmi più di tanto. Un giorno sembrava che il direttore del giornale mi volesse nominare capo redattore della sezione, ma la mattina dopo Jeremy, un uomo sulla cinquantina più basso di me, grassoccio e con i capelli unti e riccioli, aveva preso il mio posto. Più tardi avevo scoperto che la sera prima un bel regalo era entrato in casa del direttore, ma non ho mai saputo di cosa si trattasse. La mia vita è piena di vicende di questo genere. Ho pensato che forse scriverò un libro quando finirò di lavorare a questo giornale. Potrebbe essere divertente perché la mia vita è infatti piena di casi di questo tipo, paradossi, contraddizioni, casualità, ma alla fine penso anche che possa risultare divertente solo per chi lo leggesse, perché io non è che mi sia mai divertito più di tanto.
A metà mattina arriva al giornale la notizia della morte della signora Hedman, strangolata da un ladro, si pensa ad un ispanico. Mi reco sul luogo del delitto con Jeremy, ma sto lì poco, poi me ne vado a mangiare un boccone al bar di Danny e me ne torno in ufficio che manca poco alle due. Impiego quasi due ore a scrivere il pezzo, esaltando con distacco la gentilezza e la bontà della signora Hedman, una sessantacinquenne che in realtà conoscevo solo di vista. Mando l’articolo e torno a sedermi sulla mia sedia. Il mio lavoro è finito, ma il contratto dice che devo stare qui fino alle sei, nel caso serva una mano a qualcuno. Così mi siedo e provo a scrivere una lettera alla mia ex-moglie, se le va di uscire a bere una birra e definire quello che non abbiamo ancora definito un po’ per rabbia e un po’ per paura. Scrivo, rileggo e correggo e dopo un’ora il foglio si ritrova nel cestino. Poco dopo arriva Jeremy chiedendomi se posso correggere alcuni articoli. Va bene, gli rispondo. Finisco il lavoro e gli lascio i fogli sul tavolo. Poi mi guardo in giro e vedo intorno poca gente, alcuni nemmeno li conosco. Prendo la giacca, butto la matita sulla scrivania, spengo la luce sulla scrivania ed esco.
Mi si getta addosso un vento freddo, mi sistemo il cappello che Beth mi aveva regalato lo scorso Natale e mi avvio ancora da Danny per mangiare qualcosa. Non mi vede nemmeno entrare, e noto che al mio solito tavolino è seduta una giovane coppia. Mi tolgo il cappello e mi siedo a quello immediatamente dietro. Danny finalmente mi vede e viene a chiedermi cosa voglio. Prendo un’omelette e una birra media. Inizio a fissare la coppia davanti a me. Lui mi dà le spalle, mentre vedo in faccia lei, mi sembra di aver capito che si chiami Jane, ma non sono sicuro. E’ molto carina, avrà venticinque anni e il suo sorriso mi ricorda molto quello di Beth nelle foto da giovane. Lui le stringe tutte e due le mani e lei lo guarda negli occhi. Ad un certo punto lei distoglie lo sguardo e mi lancia un’occhiata. Mi sento imbarazzato e dò un lungo sorso alla mia birra. Poi apro il giornale, ma continuo a guardare la coppia. Stanno bevendo una cioccolata, ma non capisco di cosa stiano parlando, anche se più volte però nominano la parola casa. Danny mi porta l’omelette. Finisco la birra e ne ordino un’altra a Jess, la cameriera, insieme ad un bicchier d’acqua. Da quel che ricordo non dovrebbe essere il suo vero nome, ma qui tutti i clienti la chiamano Jess, è una donna che ha superato da poco i quaranta. Una sera, dopo che il bar aveva chiuso, l’avevo accompagnata a casa e lei mi aveva chiesto se avessi voluto salire da lei. Allora stavo ancora con Beth e non me la sono sentita. Poi quando Beth mi ha scaricato ho aspettato più volte che lei mi chiedesse ancora di accompagnarla a casa, spesso rimanevo senza motivo fino alla chiusura del bar o fino al termine del suo turno. Ma quell’occasione non è più capitata, il treno era passato e non sarebbe più tornato. Jess mi sorride, mi porta un altro bicchiere di birra. La coppia davanti a me ha ancora le mani intrecciate. Mi vien voglia di dirgli di bere la cioccolata, che si sta raffreddando. Ma non dico nulla, perché vedo le mani di lei che si allontanano e abbracciano la tazza. Poi mi guarda ancora, e io faccio finta di sistemare il cappello sul tavolo. Mi sorride e io annuisco con un cenno discreto di saluto. Poi le loro mani si incontrano di nuovo. Io continuo a mangiare la mia omelette. Nel frattempo entra anche Jeremy, ma fingo di non vederlo, per evitare che si sieda al mio tavolo e si metta a parlarmi delle responsabilità che ha ora che è capo redattore.
Squilla un telefonino, il ragazzo di schiena si mette una mano in tasca e risponde. Vedo che si gratta la nuca, mentre lei inizia a fissarlo severa. La mano destra di lui sfiora quella sinistra di lei. “Ci sentiamo più tardi, va bene?” e chiude la telefonata. “Chi era?” chiede la ragazza. “Nessuno” fa lui, e si gratta ancora la nuca. Lei allontana di scatto la mano. “Chi era al telefono?”.”Nessuno d’importante t’ho detto. Era Chuck, mi chiedeva se più tardi ci potevamo vedere. Però forse ora è meglio andare, Jane”.”Chi era al telefono? Dimmi chi cazzo era davvero al telefono -lei alza leggermente la voce e accarezza nervosamente il tavolo- non era Chuck, vero?” Anche Danny nota la discussione mentre sta preparando due caffè, Jeremy invece guarda fuori dalla finestra. “Ti ho detto che era Chuck, non rompere, ti sei impazzita? Stai calma che c’è gente intorno”.”Brutto stronzo. Non era Chuck al telefono, lo so benissimo. Bastardo. Chi è questa volta? Dimmi chi era al telefono” Lui non risponde, e gli occhi di lei si fanno lucidi, ma non capisco se di rabbia o di lacrime, forse tutti e due. “Parla. Chi era, Sarah o quell’altra puttanella con i capelli rossi che ti sei sbattuto tre settimane fa in macchina?” La sua voce ormai è alta, e dall’occhio destro cade una lacrima nella cioccolata. “Parla, dimmi la verità una volta tanto stronzo che non sei altro.” Lui guarda la sua tazza e continua a non rispondere. Lei lo sfida con gli occhi rossi di rabbia, sembra quasi ringhiare. Io finisco l’omelette, Danny si asciuga le mani, Jeremy guarda sempre fuori dalla finestra. “Chi è? Era Sarah, vero? Era Sarah, vero?”, si alza di scatto. Ora sta proprio gridando e le sue braccia si muovono veloci facendo ampi gesti. Leggo negli occhi di Danny l’espressione di un uomo che non sa cosa fare. “Sai cosa ti dico? Nulla ti dico. Non ho nulla da dirti. Non farti più vedere. Non voglio più piangere, solo cazzate sai fare. Corri dalle tue amichette del cazzo” gli urla in faccia. Prende la giacca e la borsa “Brutto figlio di puttana che non sei altro!” grida e mentre si muove con la borsa colpisce la tazza piena di cioccolata che schizza sul vetro e si rovescia sul tavolo. Una goccia arriva fino al mio cappello. Lei corre fuori coprendosi il viso con entrambe le mani. Sento lui che bisbiglia “Jane”, senza muoversi e senza troppa convinzione. Poi prova a pulirsi il maglione dalla cioccolata con un fazzoletto di carta. Si blocca, si gratta con insistenza la nuca e fa una telefonata. “Sarah…”.
Io smetto di ascoltare, nel frattempo Jeremy se ne è andato, Danny è più tranquillo, Jess pulisce il vetro e il tavolo con uno straccio. Io guardo il mio piatto senza omelette e il bicchiere di birra vuoto. Penso di ordinarne un’altra ma poi desisto. Prendo in mano il mio cappello, immergo il fazzoletto di stoffa nel bicchiere d’acqua e provo a levar la macchia di cioccolata. Ma il segno evidentemente resta e un po’ mi dispiace, quel cappello me l’aveva regalato Beth lo scorso Natale. Scuoto la testa e mi alzo. Mi avvicino alla cassa. Magari chiedo a Jess cosa fa più tardi.
Carlo Guerini