Racconto breve scritto e proposto da Egon Ustino
La sede delle compagne del vento si regge a stenti all’interno dell’intricato disegno di un quartiere ormai fuori uso, abbandonato, il cuore di una città antica nei cui solchi scorre gelido il cielo.
A ritrovarcisi dentro ci si sente fluttuare, come se il groviglio di palazzi fosse sospeso in aria, isola volante sulle cui rive scrosciano le nuvole.
La risacca è silenziosa, e quando la luna corteggia l’alta marea, ogni forma scompare avvolta dalla fitta nebbia.
La tecnica di cattura è antica quanto il mondo, il primo vento fu la prima grande tempesta, durò a lungo e in se racchiudeva il male, l’odio, un semplice vaso in cui stava racchiusa l’incapacità del demiurgo di accettare i propri errori.
La donna che ne mangiò il contenuto fluttua ancora per gli spazi, priva di forma, etere celeste e spirituale, slegata da ogni piano d’esistenza, insonne bruma fra le stelle.
Da quel giorno donne d’elegante spirito padroneggiano la tecnica di cattura, rinchiudono il vento plasmandone la forma, e quando gli astri son limpidi ne fanno incetta (avvolte dai soffici cuscini del tempo) per ritornare spirito, giusto il momento d’un vortice (spira).
Purtroppo agli uomini è negato tale privilegio, forse per l’incapacità d’astrarre il proprio spazio, forse per l’eccessiva zavorra che muta in fardello dell’animo.
Si trovano ogni luna piena, le compagne del vento, le ultime rappresentanti di questo rito ormai perduto, non conservano più la bellezza della gioventù, la loro pelle non è più morbida, ed i capelli hanno perso colore, ma negli occhi conservano una tale gaiezza, che il corpo pare uno strano costume per mascherarne lo spirito.
Il metodo più semplice per catturare il vento è lasciare un recipiente aperto a raccoglierne il fiato, a volte potrebbe formarsi un suono a descriverne l’inevitabile prigionia.
La difficoltà è indugio di fede, il segreto sta nel credere gli elementi vivi, mobili e suscettibili a combinazioni, tale è precetto indispensabile per la loro conquista.
Conservato al sole un vento perde le sue proprietà, si trasforma in afa, l’acqua al suo interno si separa in gocce; il vento va conservato al buio, in un luogo fresco, sotto un cumulo di terra umida, dentro una grotta o volendo nel frigo, anche se il gelo ne altera leggermente il sapore.
Le compagne prediligono i vasetti di conserva, quelli di vetro trasparente, ma un tempo usarono pesanti anfore in ceramica o fragilissime ampolle di vetro, rimpiazzate ormai per questioni di comodità.
Quando i venti sostano all’interno dei vasi di conserva s’invecchiano e lentamente rilasciano il sapore più intenso, racchiuso nei piccoli soffi, e volendo si possono mescolare a piacere, creando numerosi miscugli aerei, attraverso strumenti talmente unici che se si rompessero andrebbero perduti per sempre, perché creati dagli esperti maestri vetrai Veneziani, soffiati rimescolando nei polmoni i venti più raffinati ed antichi, venti dai nomi dimenticati e mai esistiti.
La brezza mattutina che s’insinuava tra le vie di Babilonia.
I venti che erosero le antiche piramidi ed un mattino di Aprile trassero in inganno la corona del potente Osiride, scaraventandola al suolo.
I feroci soffi che Eolo rigurgitò contro Ulisse, sospirandolo ad errare per tutto il Mediterraneo.
Ogni compagna ha un inclinazione particolare, frutto d’una profonda ricercatezza dello spirito.
Come ad ogni pianta s’accostano cure particolari, ad ogni cibo s’accompagna una differente tipologia di vino, ogni carattere ha propensione per determinati venti, dettati dalle esperienze passate, dai venti conosciuti durante l’infanzia, da quelli votati ad asciugare le lacrime d’un pianto.
Astrid dalla bocca minuta scoprì il suo primo vento per caso.
Figlia di pescatori che abitavano le sponde del freddo Mälaren mangiò il vento ancora bambina, quando, da un barattolo dimenticato aperto su d’una finestra, tentò d’inghiottire l’ultimo dolcetto appiccicato sul fondo, ed il contenuto volatile e leggero le scivolò torbido nella gola, fin dentro lo stomaco.
Calliope, la più anziana, perde le sue origini nel tempo.
Si narra che suo figlio morì tragicamente, dopo un viaggio che lo condusse nel ventre del mondo.
Predilige venti che scorrono in luoghi dove si tennero grandi battaglie, che spettinarono i capelli di antichi guerrieri e seccarono il sangue sui cadaveri degli sconfitti, venti che decisero in un soffio le sorti del mondo.
Quando li inghiotte una lacrima le scorre sul volto, rigandole la guancia.
Attenta la fa ricadere nel vaso da cui aveva attinto.
E quella lacrima salata è un pregno distillato di storia.
Ed il suo corpo, fulcro d’ispirazioni, funge d’alambicco per concentrare in un unica goccia il segreto d’ogni leggenda.
Iride, seguendo gli insegnamenti della madre, raccoglie il vento su vergini picchi scogliosi, spiccano sentori di mare, salsedine ed alghe.
Imprigionato nei gusci dei Nautilus lo conserva sul fondo del mare, dove la luna precipita oltre l’orizzonte.
Teti possiede una bellezza smisurata che seppur seppellita dall’accartocciarsi degli arti sugli anni, sul volto lascia trasparire un impellente fascino.
Ingestibile ed indomabile, cangiante e mutevole, eccentrica e fuori dagli schermi.
Mescola i venti in combinazioni assurde e spesso l’errato dosaggio delle quantità le provoca nausee e malori, vomita nuvole e sprigiona vapore caldo dal naso, ma attraverso questa autodistruzione sembra raggiungere la sua personale estasi del corpo.
Sanno che sarà l’ultima volta.
I muri d’un tempo, completamente dipinti d’azzurro, sono ora in buona parte scrostati, ed il bianco che emerge dai resti cerulei dell’intonaco, ricorda le nuvole che s’aprono morbide nel cielo.
Quando la compagnia del vento si scioglierà, forse anche il vento cesserà d’esistere, da forza insita del mondo, riunione prorompente di verbi, collettore di tutti i fiati, tornerà semplice aria sospinta, purissimo fenomeno meteorologico.
Ma come possono loro, ormai semplici vecchie con sulle spalle la storia del mondo, riuscire a mutare questi nuovi tempi, dove lo scoglio è d’acciaio e la barca di plastica solca lagune artificiali intagliate nella carne granulosa della terra.
Decise svuotano la dispensa segreta, riempiono la stanza di vasetti di conserva, dai più piccoli, un tempo sedi di marmellate e salse, alle bottiglie in passato colme di whisky e rum, fin alle pentole a pressione, in cui vorticano i cieli più arditi.
La stanza ne è praticamente sommersa, ricolma, e rimane spazio solo per le quattro compagne, accovacciate al suolo nei lunghi e freschi abiti color pastello.
Iniziano insieme ad aprire i contenitori ed a divorarne il contenuto, uno dopo l’altro, inghiottendo più vento possibile, fintanto che nel sangue non rimanga solo che aria, finche il cervello non si svuoti d’ogni pesantezza terrena, finché i piedi non si sollevino dal suolo levitando e con loro tutti i vasi vuoti e quelli ancora pieni, ed ecco che appositamente li rompono contro il suolo ed un turbine si scatena al centro della stanza e loro, le streghe, cominciano a volteggiare sempre più veloci, gridando e ridendo, sono l’anima del mondo che scompare in un amplesso senza carne, è la forma che torna al suo stato primordiale, alla sua inseparabilità, alla sua torbida inazione.
E vorticando sempre più veloci le compagne diventano trasparenti, la pelle, ormai poggiata come un abito su della carne esausta, lascia intravedere i vasi sanguigni che inseguono l’anatomia incerta, pare quasi si possa coglierne come dei frutti gli organi dal ventre rarefatto, e mentre svaniscono ogni difetto scompare, le rughe si placano e l’epidermide si distende placida sulle ossa cave che si riempiono di nebbia.
Si amalgamano insieme, gli organi s’incastrano e s’accorpano i liquidi del corpo, i cuori s’insinuano l’uno all’interno dell’altro, trovano spazio oltre il velo della realtà.
Svaniscono in un elegante gesto del tempo.
Egon Ustino