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ORO!

Racconto breve di Alfredo Perna

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L’ululato mattutino è cupo, un rumore prolungato che rimanda all’idea di una demotivata sirena di mezzogiorno di una fabbrica lontanissima.

Spio dalla finestra; levando lo sguardo in aria noto lo squarcio. Sagome di ciclopici palazzi, strade curvilinee attraversate da forme rettangolari di polvere gialla, persino distributori di carburante grossi come container che prendono corpo come sabbia a contatto col fuoco. L’impressione è che la città vera altro non sia se non un modello in scala ridotta della città autofabbricata nell’aria. Nell’angolo più lontano, in direzione ovest, forme spianate e increspate si agitano come un mare in tempesta. Poi il cielo si satura di navi: carcasse di bastimenti alla deriva e forme trapezoidali più piccole, lunghe svariati chilometri.

Ci sarà di nuovo tempesta”, penso distrattamente, nel mentre di fronte casa mia, alcuni degli uomini gialli si mettono all’opera. Il piccolo esercito stakanovista intenzionato a conquistare dapprima la nostra città e poi il mondo intero. Sembrano canarini. Non badano a me indaffarati come sono a mettere a nuovo la decadente villetta dei De Gennaro. Ne vedo un paio attraversare la strada e avvicinarsi alla mia staccionata. Si chinano lentamente mettendo in mostra forme plastiche luccicanti e sempre con pigrizia riempiono due grosse borse di plastica di polvere gialla.

Sagome apatiche placcate d’oro che brillano alla luce del mattino.

Ignoro la natura di tali esseri. Sono apparsi all’alba di un giorno di luglio e non sono mai più andati via.

Un improvviso attacco di tosse mi fa ballare il petto. Mi stacco dalla finestra per evitare di essere visto. Sento fitte dappertutto: sotto lo sterno, sulle braccia, alla base del collo. Se voglio continuare a vivere, non posso andare avanti a respirare aria dorata. Guardo ancora in direzione del vetro, dove ho appena sputato centinaia di particelle dorate sulla sua superficie; il pensiero va a mia moglie e all’idea di darmi una bella mossa: devo andarmene di qui al più presto e mettermi alla ricerca di altri miei simili.

È stato a gennaio che è cominciato tutto. La prima pioggia di coriandoli d’oro nei cieli di Grenada. Proprio in quel piccolo buco di culo del mondo doveva mettersi a piovere! Dopo decenni di deficit pubblico, ed un graduale peggioramento del saldo della bilancia commerciale, Grenada divenne in pochissimo molto ricca grazie all’imponente commercializzazione di oro a prezzi bassissimi. Chi avrebbe potuto mai dirlo che un giorno la pioggia avrebbe letteralmente lavato via la preoccupazione più nera delle autorità del governo!

Verso la metà di marzo gli Stati Uniti dichiararono guerra a Grenada. Appena due giorni dopo le dichiarazioni del portavoce del Ministro degli Affari Esteri: “Questa nuova guerra è un affare necessario per la sicurezza e il futuro del nostro paese”, iniziarono le incursioni aeree degli americani sulla minuscola isola del Mar dei Caraibi. Lo scenario dei cieli cambiò immediatamente aspetto: non più polvere gialla, ma a cadere in basso furono migliaia e migliaia di ordigni bellici. Ciao ciao Grenada cara!

Aprile: le perturbazioni di oro iniziarono in altri cieli del mondo. Pioveva praticamente dappertutto: Africa Subsahariana, Nuova Zelanda, Francia, Germania, gran parte del territorio Russo, Taiwan, Cina meridionale. E alla fine ha cominciato a piovere anche in America. Forse è stato proprio quest’ultimo avvenimento a fermare una possibile Terza Guerra Mondiale.

È proprio in quel periodo che la fabbrica chiuse. Ciò significava che io non avevo più un’occupazione stabile e acquisivo il diritto di gironzolare apaticamente per casa tutto il santo giorno. Adesso mi sdraiavo sulla poltrona e facevo un rapido zapping alla tv. Adesso mi sedevo in un angolo in cucina e facevo scorrere violentemente la manopola della radio alla ricerca di una stazione che non parlasse dell’oro. Tutto inutile. Ogni stazione radio, ogni benedetto canale televisivo parlava sempre e solo di quanto fosse importante l’oro per l’economia mondiale. “Non esci a raccogliere l’oro?” chiedeva mia moglie, qualche volta. Io la guardavo storto e dicevo: “A che serve raccoglierlo, ne siamo letteralmente sommersi!”

Poi è venuto maggio. Si scoprì che la tesi di quanto fosse importante l’oro per l’economia mondiale era la più grossa cavolata sparata negli ultimi 40 anni. In base a diversi studi effettuati da un istituto di ricerca dell’Università del Minnesota si stabilì che c’era una differenza basilare tra l’oro nativo e quello che pioveva dal cielo. Quest’ultimo presentava una frazione d’argento maggiore rispetto al primo – compresa tra il 15 e il 20% – e quindi era da considerarsi, sempre in base a questo studio, più simile all’elettro che all’oro puro.

Le provarono tutte per far cambiare idea alla gente. Sforzi inutili. A nessuno fregava niente. Soprattutto quando si venne a scoprire che con l’oro era possibile modellare cani da guardia. Questo è accaduto a luglio. Il primo a modellare un cane da guardia fu un ex impiegato di banca dello Yorkshire, nel cui giardino le piogge avevano dato vita ad autentiche piramidi naturali: per impedire che alcuni bambini scavalcando le staccionate potessero danneggiare quelle opere d’arte solo per arraffare oro, diede forma ad un rozzo quanto efficace Leonberger – lo colorò addirittura con una passata di vernice color nocciola – e lo posizionò nel bel mezzo del suo giardino. Quando i ragazzini provarono ad avvicinarsi di nuovo alla casa, il cane si animò e cominciò ad abbaiare violentemente. Fu un’idea talmente geniale che in breve anche gli altri vicini fecero lo stesso: schiere, eserciti di giganteschi Leonberger a guardia delle case.

Pioveva tantissimo oro, e non si era lo stesso contenti.

E così: coppie sterili forgiarono neonati in fasce. Aspiranti suicidi modelli perfetti di Smith & Wesson con cui si sparavano un colpo in testa dopo averle caricate ad arte con proiettili modellati. I pigri si costruivano cloni d’oro per farsi sostituire sul posto di lavoro. I cloni potevano infrangere la legge ed essere processati in luogo dei veri colpevoli.

Un certo Vladimir Sokolov, un emerito professore di filosofia dell’Università Statale Lomonosov di Mosca, incarnò una complessa ideologia egalitaria che eleggeva le piogge dorate quale elemento imprescindibile di una società democratica fondata sulla necessità dell’uguaglianza giuridica, economica e sociale dei cittadini.

Poi qualcuno o qualcosa ha creato questi individui ricoperti d’oro.

È agosto, adesso. Ho come l’impressione che in città non sia rimasto più nessuno. Sono giorni e giorni che non vedo più i vicini sbirciare da dietro le finestre. È davvero strano. “Sono tutti morti”, sussurro elaborando uno dei miei tanti pensieri negativi. Fisso con lo sguardo le innumerevoli particelle dorate che ho starnutito, sparpagliandole sul vetro, e rifletto: “Qualcuno del governo ha pensato proprio a tutto: una malattia virale che spazzasse via l’intera umanità dalla faccia della terra, e forse ci è riuscito per davvero.”

Prendo la pistola dal cassetto, percorro per l’ultima volta il corridoio raccattando le poche cose che penso mi possano servire e le infilo nello zaino. Prima di spalancare del tutto la porta sul retro mi guardo attorno. Nessun Canarino in giro. Non so se gli uomini dorati siano esseri bellicosi o meno, ma non si sa mai. Certo è che da quando sono apparsi loro, i miei simili sembrano essersi estinti.

Ciò deve pur significare qualcosa.

In cielo l’ululato sembra adesso il terribile lamento di un mastodonte in agonia. Mi avvicino quatto quatto alla staccionata e raccolgo una piccola manciata di oro secco, depositato a ridosso di un cespuglio bruciato dal sole, e mi ci strofino con forza le mani, il collo e la faccia. È un piacere profondo sentire la polvere sulla pelle! Poi prendo un’altra porzione, molto piccola, la bagno con la saliva e dopo averla modellata come una pallina la finisco con tre rapidi morsi. Al momento opportuno l’oro può rivelarsi un cibo discreto.

Poco dopo l’ululato si smorza ancora. Adesso è più simile al lamento di un neonato. Pesco dallo zaino un fazzoletto, me lo stringo forte sulla bocca, e mi drizzo giusto in tempo per vedere la finta città dorata sopra la mia testa prodursi in un’esplosione silenziosa: miliardi di particelle di polvere d’oro vengono giù, lentissimamente, come una fitta pioggia di brillantini dorati.

È sempre a questo punto che gli uomini gialli si bloccano. La pioggia mattutina è il loro minuto di raccoglimento. Alcuni si mettono in posa come per essere immortalati da una macchina fotografica che non esiste, altri si posizionano in mezzo alla strada a braccia allargate e la testa protesa all’indietro.

Si ricaricano per un nuovo giorno.

Infilo nel tamburo della colt le pallottole artigianali, che ho fabbricato con dedizione quasi certosina nei giorni passati, affusolate al punto da poterle inserire nel tamburo. È il momento buono! Sollevo la bocca della pistola, socchiudo un occhio e punto oltre la staccionata contro uno di quegli scherzi di natura. La pistola fa click diverse volte, senza esplodere nemmeno un colpo.

In breve tutti quei bastardi mi notano, e puntandomi rozzi indici di zafferano mi si avvicinano. Sanno muoversi velocemente! Nel mentre le particelle d’oro continuano a volteggiare, a cadere dall’alto e a posarmisi addosso, i Canarini guadagnano sempre più terreno. Ma se credono di potermi prendere sono in errore! Mi riparo in garage, m’infilo nella Toyota e, mentre metto in moto, col telecomando faccio sollevare la saracinesca. La spedizione punitiva si para dinnanzi il mio cofano. Accelero, suonando con insistenza il clacson, ne urto un paio, di quei cosi, e rimedio una brutta ammaccatura su un lato della carrozzeria.

Infine guadagno la carreggiata e riesco ad allontanarmi.

La notte non riuscivo più a dormire. Era maggio, agli inizi. Appena spegnevo la luce sul comodino e chiudevo gli occhi incominciavo a cambiare continuamente posizione sul materasso, e proprio in una di quelle interminabili ore d’insonnia, voltandomi dall’altro lato del letto, notai la sagoma scura di mia moglie prodursi in una orribile contorsione: la schiena arcuata all’indietro e la bocca che si apriva e chiudeva ad esprimere una specie di dolore silenzioso. Sembrava un’improbabile danza orizzontale. Accesi il paralume giusto in tempo per vederla vomitare uno scintillante cilindro d’oro.

Maria, Maria”, la chiamai scuotendole con forza la faccia, inducendola a svegliarsi; poi la trascinai giù dal letto per i piedi e tentai invano di farla rinvenire sotto il getto freddo della doccia. Ma era come in trance: continuava a dimenarsi come una indiavolata.

Mia moglie morì quella notte stessa, dopo aver sputato un’altra dozzina di quei cilindri d’oro. Lunghi tubi compatti di una trentina di centimetri ognuno. Sotto le luci del neon, sembravano feci sfavillanti. Non so per quanto rimasi accanto a lei, nel piatto della doccia, a fissare quell’espressione severa, gli occhi vitrei e il corpo freddo come una statua di marmo. Ero sconvolto. Piansi parecchio. Credevo che morire a trentadue anni fosse la più grande ingiustizia di questo mondo.

Ma allora mi sbagliavo.

È stata una pessima idea allontanarmi di casa. Da quando mi sono messo in viaggio, non ho ancora fatto nemmeno una sosta. Dopo una settimana mi rendo conto che l’Autostrada A11 è tutto territorio degli uomini dorati: ci sono troppe precipitazioni qui, troppe particelle di polvere che non aspettano altro che sommergermi. Una volta, in questa zona, volavano aerei supersonici. Autentici mastodonti di metallo bianco che si levavano in volo emettendo barriti primitivi in grado di espandersi per centinaia di metri tutt’intorno. Sfido chiunque a ricordare com’era la vita prima che tutta questa faccenda incominciasse a venire a galla.

Tre giorni fa per poco non fracassavo la macchina nei pressi del Grande Raccordo Anulare, quando all’altezza di una vecchia area di servizio si è verificata una forte grandinata, un’autentica tempesta di noci luccicanti; a contatto con l’asfalto, i sassolini, risuonavano come tante bocche di martello. Mi sono ritrovato ad avanzare a zigzag, ad andare di continuo da una corsia all’altra nel tentativo di evitarli, ma alla fine la carrozzeria della Toyota è diventata tutta butterata.

La Pianura Padana è peggio: le perturbazioni sono proprio terribili ed è piena di gente che tenta di rassomigliare al gruppo di uomini gialli che ho visto lavorare di fronte casa mia. Vogliono tutti confondersi con quelli lì e sembra che proprio tutti siano dediti al commercio della crema protettiva. Nei pressi di un Motel abbandonato un uomo dal forte accento tedesco si getta letteralmente sul mio cofano e tenta di barattare un latte preservatore, a protezione molto elevata, di propria invenzione. “Soltanto se ti spargi questa crema su tutto il corpo potrai sperare di sopravvivere a lungo. Funziona per davvero!”, mi fa lui. Conforme alla Normativa Europea c’è segnato col pennarello su un lato della bottiglia. In cambio gli cedo tre Pall Mall e un piccolo accendino che trovo dentro un pacchetto sul fondo del cruscotto.

Senza nemmeno volerlo sono giunto nei pressi di una sorta di città ricavata da un vecchio sfasciacarrozze. Pile e pile di automobili arrugginite, camion e scooter fuori uso fungono da recinzione della vasta area. Sopra il cancello d’ingresso un cartello annuncia orgogliosamente: Tutti i veri uomini salgano a bordo! Ha tutta l’aria di un messaggio di propaganda. Un paio di ragazzi muscolosi, seminudi e completamente ricoperti di una mano di brillante vernice d’oro, si parano davanti al cofano e mi fanno segno di stopparmi. “Se non indossi la protezione, puoi pure restare fuori”, mi fa uno dei due.

Scendo dalla Toyota e mi cospargo di crema protettiva.

In questo luogo, di notte, per un’oscura ragione che non mi sono ancora spiegato, l’oro raffreddato si solleva e satura l’aria di particelle che brillano alla luce della luna. È un’autentica bufera al rallentatore. Milioni o forse miliardi di granelli di pulviscolo incominciano a levarsi lentamente dal suolo e riprendono vita per un paio di ore al massimo, incendiandosi a contatto con l’ossigeno.

È un inferno.

Ogni notte mi unisco agli altri residenti dell’ex sfasciacarrozze in una vasta area; seduti gli uni accanto agli altri, ci mettiamo in attesa del fenomeno atmosferico.

Viviamo proprio in un mondo di merda, eh?” mi fa l’uomo seduto alla mia sinistra. Ha denti marci e riccioli impiastricciati di pasta gommosa. Quando mi sorride mi sembra un Al Jolson virato in seppia brillante.

Annuisco cercando di resistere più che posso all’orribile ondata di calore che mi investe come un maroso elettrico; non vedo l’ora che quest’orribile incubo termini.

Ma a molti è andata anche peggio”, aggiunge dopo un po’.

È vero”, gli faccio ripensando alle terribili contorsioni di mia moglie nel letto. “C’è chi è andata peggio.”

L’uomo mi guarda e annuisce mentre bruciamo allegramente nella calda notte di fine estate.

 Alfredo Perna
[email protected]

Author: Alfredo Perna

Alfredo Perna (Napoli, 1976) si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università Federico II. Tra i suoi interessi: la letteratura, il cinema e l’arte. Dal 2012 collabora con gli Alieni Metropolitani, pubblicando racconti e recensioni.

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