Racconto breve di Ilaria Bonfanti
-Signorina Lei ha paura del mondo.-
-Sbagliato, anzi sbagliatissimo.-
Il mondo non mi aveva mai fatto alcuna paura; se ne stava lì da sempre con le sue montagne altissime e immobili, con i suoi mari sconfinati, stagione dopo stagione. Con i colori che mutavano gli alberi e gli umori, con le forme diverse delle nuvole.
Il mondo, a me, non creava alcuna ansia.
Le persone.
Le persone incastrate nei loro meccanismi di egoismo e prevaricazione, di successo e supponenza; quelle sì che mi terrorizzavano, abituate a una routine quotidiana di lamentele e cattiveria.
Capitavano giorni in cui, camminando per le strade, rimanevo colpita da realtà oramai più comuni del profumo del caffè la mattina. Gesti di superbia e sorrisi di finzione accompagnavano cappuccino e brioches in ognuno dei bar del centro.
Basita tentavo di non farmi fagocitare in questa vita senza pietà. Senza la benché minima avvisaglia di sensi di colpa, priva delle soste necessarie per chiedere scusa. C’erano cose che mi immobilizzavano, che mi lasciavano nodi alla gola al posto di recriminazioni sulla rapidità del servizio.
L’arroganza, ad esempio, mi paralizzava.
È cosi stupido credere che il silenzio sia una semplice forma di assenso incolore. Una spiegazione cosi superficiale da darmi i nervi.
Fin da piccola, la prima cosa che facevo quando arrivavo in un luogo nuovo, era scegliere un nascondiglio.
Se c’era una cosa che sapevo fare magistralmente era nascondermi.
A volte mi cercavano per ore e ore, gridando il mio nome in lungo e in largo. Ma nessuno è capace di cercare davvero, a nessuno importa sul serio.
Ci si focalizza sul ritrovamento senza dare peso alcuno a quello che sta dietro ad ogni ricerca, alla ricerca stessa, al senso che ha ogni nascondiglio.
-Signorina, mi dica un suo desiderio.-
-Io vorrei diventare cosi piccola da poter entrare in una casa delle bambole e rimanerci per sempre.-
La psicanalisi è una merda, analizzare l’infanzia fino a farti rivivere dei vissuti inesistenti.
La mia infanzia è stata stupenda, riesce a fissarselo in testa?
Non so perché ci vado, non so perché mi è così difficile dire di no alle persone.
Ci vado da quando mi sono ammalata, dicono sia fondamentale essere affiancati da un terapeuta in una situazione come la mia. Quello che dico io pare non ascoltarlo nessuno.
Gli individui, uomini o donne che siano, sono il mio cruccio: non vorrei averci a che fare, non vorrei rapportarmi a loro, ascoltare le loro opinioni, sentire l’odore delle loro bugie confondersi con profumi di scarsa qualità. Spesso durante serate di gruppo sogno di chiudere gli occhi e sparire.
Forse succede davvero.
Forse ora mi eclisso come allora, è solo modo diverso di chiamare un nascondiglio.
Gli uomini non mi interessano, quello che mi attira sono le loro storie. Ma troppo spesso mi ritrovo ad avere a che fare con racconti noiosi pieni di congiuntivi sbagliati e personaggi descritti in malo modo. Per questo leggo libri.
Rettifico: anche per questo leggo libri.
I libri sono persone che sanno raccontare, che ti lasciano il tempo di innamorarti di una parola, di un carattere, di un sentiero. Non ti mettono fretta, non cercano soddisfazione personale nelle tue risposte. I libri li puoi chiudere e riaprire a tuo piacimento, le persone no. Rimangono li imperterrite davanti alla tua poca voglia di ascoltarle, piangendo riconoscimenti e supplicandoti un perdono che nemmeno vorrebbero.
Il genio è solitario, l’arte lavora dentro spazi aperti della mente ma senza dialogare a voce alta per le strade: il concepimento è un atto di forza bruta ed essenzialmente misantropa.
Abitavo in un piccolo appartamento del centro. Cercavo con tutta me stessa di scendere al bar per fare colazione, di trovare interessanti i discorsi snocciolati in ufficio davanti alla macchinetta del caffè. Mi sforzavo di ascoltare racconti noiosi in pausa pranzo e di uscire la sera per una birra e gli stessi racconti del pranzo,di poco più accattivanti proporzionalmente al numero dei drink bevuti.
Ogni tanto immaginavo le persone come dei grandi libri, da sottolineare se mai avessero detto qualcosa di bello, da rileggere quando ne sentissi il bisogno. Libri che avrei potuto chiudere a mio piacimento, libri silenziosi ma con tanto da dire.
Incredibile notare la totale incapacità degli individui di gestire i silenzi, i propri come quelli altrui.
Casa mia era colma di libri e giustificazioni; “non esco perché non sto bene, ho lavatrici da fare, ci sono i miei a cena, arriva l’idraulico”.
Odiavo quella sensazione di inadeguatezza, l’incapacità di dire che a me non importava conversare. I tempi del genere umano mi erano alieni, io ero abituata a pagine da sfogliare, all’egoismo dei miei, di tempi. Alle pause, o alle lettura tutte d’un fiato.
Per anni avevo tentato il concorso per diventare bibliotecaria, senza successo.
In una famiglia di medici e avvocati, la mia vocazione non era altro che un’onta della quale vergognarmi, la consapevolezza che ci si ritrovasse di fronte a una ragazza priva di aspirazioni, una di quelle che poteva puntare a dei nove ma si accontentava di svariati sei e mezzo senza dover fare fatica.
Avevo smesso di provarci, con quel piccolo sogno della biblioteca dico, accontentandomi di scrivere comunicati stampa, presentazioni di eventi (e tutto quello che ci gira intorno), per un’associazione culturale piuttosto importante della mia città.
Non era male tutto sommato, c’erano le parole e, cosa più importante, erano scritte. Potevo ascoltare la musica che volevo in ogni momento e la mia collega di scrivania non si poteva definire di certo una “chiacchierona”.
Nessuno mi chiedeva della mia malattia.
In amore era diverso. In amore ci sono sempre troppe domande e, per inciso, mai quelle giuste.
Di solito mi innamoravo di personaggi da grapich novel; gli appassionati di romanzi li trovavo noiosi e i non lettori erano stati per anni la mia “missione da crocerossina”, ma poi si cresce. Si impara a volersi un poco di bene in più. Perlomeno cosi sembra dire il mio psicanalista.
Ci pensavo e ripensavo, durante quei lunghi aperitivi colorati da spritz e da negroni, quanto potessero capire di me. In quelle occasioni ero decisamente piacevole, raccontavo storie con le parole adatte, caratterizzavo i personaggi e mi soffermavo sulle descrizioni giuste come il più intrigante dei romanzi.
All’inizio le cose andavano decisamente bene, tra risate e gite fuori-porta. Appuntamenti sotto casa, cene e risvegli con fette biscottate e marmellata di ciliegie ; sesso selvaggio e parole d’amore più o meno sentite. Le cose andavano, all’incirca bene, fino a che non mi scoprivano in bagno a vomitare, fino a che i cicli di chemio non potevano più essere nascosti dietro finti sorrisi ma si riflettevano sul viso, sui capelli, sull’umore.
-Signorina Lei dovrebbe parlarne alle persone che frequenta.-
90 euro a seduta.
-Signorina Lei deve affrontare il suo dolore e smettere di nascondersi.-
Non vivrò a lungo ma dovrei smettere di buttare via i soldi.
Io vorrei diventare cosi piccola da poter entrare in una casa delle bambole e rimanerci per sempre.
Ilaria Bonfanti [email protected]