Approfondimento di Andrea Corona
Pare – almeno così si dice – che Lars von Trier abbia scritto e diretto Melancholia durante un periodo di depressione. Che sia vera o meno, la notizia ha indotto molti critici a leggere in questo film una storia sulla depressione. La mia impressione, tuttavia, è che von Trier non abbia voluto rappresentare una storia di depressione, bensì una storia che inducesse lo spettatore a vivere la realtà che vive un depresso (e, in ciò, la depressione assumerebbe il ruolo assunto dall’ipnosi nei primi tre film del cineasta danese, e in particolar modo in Epidemic).
Se si analizza la depressione secondo un’ottica non soltanto psicopatologica o meramente clinica, ma anche esistenziale e fenomenologica, si giunge ad un interessante esito, ad una “scoperta”: per il depresso non c’è solo la paura della sua sparizione individuale; ma è l’intera realtà, l’intero universo che si “spegne”. E quando, nella parte centrale del film, si dice che la Terra è l’unico punto dell’universo dove si è accesa la luce della vita e della coscienza, ne consegue che, sparita questa, ogni luce dell’universo si spegnerà con essa.
Le due sorelle protagoniste, Claire e Justine, si configurano in tal modo come le (due) tipiche parti in cui si suddivide la psiche di un depresso: una parte cerca di reagire, negando l’evidenza e combattendo fino all’ultimo, mentre l’altra è invece esplicitamente depressa, abbandonandosi a se stessa, ma cullandosi anche nel fascino misterioso di quel sentimento (e si consideri, in questo senso, la seducente bellezza del pianeta Melancholia, che terrorizza e attrae al contempo).
Se questa seconda “parte” non si fa illusioni – per cui accetta, prima dell’altra, l’inevitabile e ineluttabile destino –, alla fine sembra che l’accettazione sia comunque l’ultima risposta di tutte le “parti” e dunque di tutta la psiche, mai realmente scissa in due personalità opposte, ma suddivisa in due istanze di una medesima personalità depressa.
E la brama dell’annullamento nella morte è altresì espressa nelle musiche, e in particolare nel preludio di Wagner al Tristano e Isotta, allorquando i due innamorati ripudiano il giorno (dove le cose appaiono separate) in favore di una gratificante “fantasia di unità” con l’indistinto della notte. E, in ciò, non sarebbero forse da escludere, in questa chiave interpretativa, neanche scenari di decostruzione dell’io e, in second’ordine, di effusione panica e di unione mistica con l’Universo.
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Andrea Corona