Racconto scritto e proposto da Marco Rinaldi
Sono tornato a Roma che era novembre. La pioggia batteva sui tetti bonificati un mese fa dall’eternit e riempiva i cappelli dei mendicanti. Spettava a loro raccogliere dal fondo le poche monete presenti in quelle misere Fontane di Trevi dei giorni nostri.
L’amministratore di condominio era uno stronzo: aveva sbagliato a scrivere il mio cognome sul campanello e ancora non si era deciso a rimediare.
Continuavo a chiamarmi Finardi. Come il cantante.
Ero tornato a Roma, dicevo. L’avevo fatto con un paio di occhi nuovi e un paio di montature colorate in più. Mi ero operato nel Meridione d’Italia, bontà mia. Avevo finalmente trovato il coraggio di farla finita con la miopia ma non riuscendo a vedermi senza occhiali avevo deciso di prenderne un paio con semplici lenti di vetro non graduate. Era anche questione di vanità, lo dico senza problemi. C’è chi si fa cento lampade o passa gli anni dall’estetista e ci diventa amico. Io, invece, metto gli occhiali.
Appena uscito dall’ascensore trovo un biglietto sotto la porta di casa. Era un messaggio della vicina di casa, l’interno 17. Si chiamava Carol ma non l’avevo mai vista. Qualche tempo fa l’avevo aiutata a risolvere un blackout nel suo appartamento, ma anche in quel caso lei non era lì. Era stata la signora delle pulizie a chiedermi di aiutarla. Qualche giorno dopo ricordo di aver ricevuto un biglietto in cui Carol mi ringraziava e mi prometteva che si sarebbe fatta viva presto. Poi più niente fino a oggi.
Il biglietto diceva così:
Caro Marco, potresti controllarmi un attimo il freezer? Credo non funzioni bene ed io non sono brava in queste cose. Le chiavi sono sotto il mio zerbino. Scusa, quando torno dal lavoro ti suono e ci conosciamo! Baci, Carol
Ho preso le chiavi e sono entrato in casa. Non nascondo che ero curioso di vedere come fosse quella casa. Sapevo che questa ragazza viveva sola, quindi ero sicuro di non trovare nessuno. Era tutto in ordine. C’era un corridoio luminoso che collegava il salone, arredato con mobili in legno e un colossale lampadario dorato molto kitsch, alla camera da letto. Nel mezzo c’erano cucina e bagno. Sembrava una casa arredata ma mai abitata realmente, come le case di cartapesta nelle grandi sitcom americane con le risate finte che ti entrano dentro. A parte questo, l’unico oggetto della casa che sembrava davvero reale e funzionante era proprio il frigo. Sentivo il suo ronzio costante inquinato solo dal tic di un orologio da parete di quelli che ti regalano i meccanici o i negozi di ottica. Era un ronzio forte e deciso, un rumore che sembrava la somma di tanti altri più piccoli.
Stavo per aprire il portello del freezer quando ho visto il calendario appeso sopra. Era fermo al mese di novembre 2005. Deve essere molto distratta o ugualmente impegnata questa Carol per non accorgersi di un calendario di otto anni fa. Forse era una pigra, o magari era affezionata a quel periodo. C’era una data segnata, 11 novembre 2005, e un ritaglio di giornale fissato sopra con una puntina da disegno.
Signora russa trova alieno e lo congela per due anni
Questo era scritto.
Ha sentito un fragoroso boato esplodere nel giardino della sua casa di Novosibirsk e vi avrebbe trovato dei rottami metallici tutti intorno ad un piccolo mostruoso essere, un metro di altezza occhi neri enormi e dilatati e la pelle di una consistenza stranissima. La signora avrebbe raccolto l’alieno e, constatatone il decesso, l’avrebbe conservato in freezer, tra bistecche e verdure, per due anni.
Ovviamente la storia si conclude con un paio di tipi governativi che avrebbero confiscato tutto e la donna si trova a dover dire a tutti che non è pazza.
Comunque sia, ho aperto il freezer e sono rimasto a bocca aperta.
Davanti ai miei occhi si stagliava in tutta la sua piccolezza una colossale metropoli.
Grattacieli ovunque, e tante strade disposte parallelamente brulicanti di migliaia di minuscoli omini di ghiaccio. Si muovevano freneticamente, nei loro completi eleganti intarsiati nel ghiaccio freddo come la notte, come le strade di Firenze a gennaio. Vedevo un numero incredibile di omini eleganti convergere verso una zona in particolare, una piazzetta con al centro la statua di un toro di ghiaccio. E lì, non lontano, vedevo le torri tv dei due grattacieli più famosi della città già iniziare a sciogliersi.
C’era New York nel freezer di Carol.
C’era New York nel freezer di Carol. Solo quello riuscivo a ripetermi dopo quel terribile minuto. Poi ho ripreso il controllo e ho chiuso di schianto il portello, appoggiandoci sopra la schiena, occhi sgranati. Questo ronzio, quindi, non era il rumore del motorino del frigo. Era il brusio delle voci dei minuscoli broker al telefono con gli auricolari infinitesimali ed il risuonare delle loro scarpe sul marciapiede. La fragorosa addizione di ogni singolo passo sui marciapiedi di New York.
Sono tornato a casa correndo. Avevo scritto sotto il biglietto che il freezer non aveva alcun guasto, che era tutto a posto. Ho girato il retro del biglietto e gliel’ho infilato sotto la porta. Avevo pensato anche di andare da un dottore il giorno dopo, cercando di spiegargli la cosa in qualche modo. Ero sicuro che dentro quel freezer ci fossero migliaia e migliaia di omini con le loro speranze, paure ed allegrie che andavano a giocare in borsa a Wall Street mentre guardavano il World Trade Center stagliarsi sopra i loro minuscoli profili semitrasparenti.
La notte, mentre cercavo di dormire, pensavo a quel ronzio. Anzi, forse proprio lo sentivo, il ronzio. Ho preso una camomilla, ma sembrava caffè bollente. Verso le quattro ho sentito un grande stormo di gabbiani cantare fuori dal mio balcone. Sono uscito a torso nudo nell’aria fredda di novembre, di questo novembre anno 6 d.C. dove la C sta per “Crisi” naturalmente, e li ho visti. Centinaia di gabbiani a produrre quel verso così simile ad una risata umana ma con un significato così diverso. Sono rimasto a fissarli per molto tempo, mentre li vedevo ridere di noi con gusto. Giravano sulla nostra testa sereni, convinti che era solo questione di tempo e poi avrebbero vinto loro. Si sarebbero presi Roma e Parigi, poi Tokyo e infine Berlino. Era una guerra fredda incentrata sulla loro pazienza e sulla nostra incurabilità.
Poi sono rientrato bruscamente rifugiandomi nel letto enorme e sono riuscito ad addormentarmi di un sonno disperato, affranto in un modo che è inutile descrivere a parole.
La mattina dopo c’era un altro biglietto sotto la porta di casa.
Caro Marco, grazie per aver cercato di risolvere il problema al freezer l’altro giorno. So che è un qualcosa di abbastanza impegnativo. Io non ci sono mai riuscita, ma sono sicura che tu prima o poi una soluzione la troverai. Come avrai potuto vedere è un freezer vecchiotto, ma ci sono affezionata. Le chiavi sono sempre sotto le zerbino. Grazie, Carol
Ero incredulo. Sul momento entrai in casa (mia) e mi sedetti sul letto. Era autunno, un autunno profondo nelle mie viscere e fuori, nell’aria impallidita dalle luci al neon dei parrucchieri. Umidità dappertutto e non uno straccio di lavoro. Quando mi distraevo andavo a villa ada a vedere le foglie cadere che quando ero piccolo interpretavo sempre quella caduta come una sconfitta dell’albero sull’ambiente circostante. Ora non la penso più così, ma nonostante lo interpreti come un fenomeno assolutamente naturale il peso dentro che sentivo era lo stesso.
Ho alzato la testa nella mia camera affittata in nero. Nell’appartamento di sopra dei tacchi percorrevano il corridoio andando incontro, ci scommetto, ad un altro weekend a piazza trilussa o campo dei fiori.
Come avrai potuto vedere è un freezer vecchiotto, ma ci sono affezionata.
Forse l’ho fatto perché non avevo altro da fare se non piangermi addosso. Qualunque fosse il motivo ho preso un cacciavite e sono uscito di casa. Ho preso la chiave sotto lo zerbino e ho aperto la porta.
Non appena dentro sono stato investito da un fortissimo ronzio proveniente dalla cucina. Era qualcosa che entrava nella mente e la occupava in toto, come quei tipi al teatro valle o quei gabbiani ieri notte . La casa era arredata in modo completamente diverso da ieri. Non c’erano i quadri alla parete ed anche qualche altro mobile doveva essere scomparso. Sembrava tutto un po’ più datato, ma non di molto, solo leggermente. Quando entrai in cucina il ronzio del frigorifero era insopportabile ma non mi impedì di fissare gli occhi sul calendario. Era del 2001, settembre 2001 ad essere precisi. C’era una croce sul secondo martedì del mese.
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Nonostante la mia inquietudine ricordo di aver cercato di aprire il portello del freezer con tutte le forze senza riuscirci. Dopo più di dieci minuti iniziai a forzare con il cacciavite. Sentivo il portello cedere leggermente e, dopo qualche minuto, spalancarsi. Il rumore, un terribile suono più acuto del ronzio di prima, aveva iniziato ad invadere la cucina e con esso dal freezer vedevo fuoriuscire un fumo bianco sottile e costante, ma fino a quel momento a malapena riuscivo ad intuire quello che vedevo a causa di ciò che sentivo. Un rumore che mi faceva soffrire ai livelli più profondi della mia anima.
Mentre poggiavo il cacciavite e iniziavo ad avvicinarmi al freezer cercavo di tenere le mani sulle orecchie per attutire quel terribile sibilo. Adesso iniziavo a vedere cosa stava accadendo lì dentro.
Le due torri del World Trade Center bruciavano inesorabilmente. Vedevo migliaia e migliaia di omini di ghiaccio gridare il loro terrore e correre lontano dalla zona del disastro nel freezer. Ed ecco cosa ero quel ronzio, le grida di questi uomini e donne travolti da questa serie di attentati. D’un tratto erano le 9.59 e con un rumore di uova rotte ho visto la torre sud crollare di schianto ed uno ZZZZZZZZZZZZ terribile mi riempiva il cervello ed ogni suo corridoio. Erano scene che ricordavo distintamente essere accadute in una mia vita precedente, una vita più facile e meno impegnata che si era conclusa quel giorno.
La dinamica del disastro era perfettamente chiara dentro di me ed allo stesso modo dentro questo freezer tutto si svolgeva in modo preciso, netto e indistinto. Alle 10.28 sarebbe crollata la seconda torre, la Torre Nord, e con essa migliaia di omini si sarebbero spezzati senza appello così d’un tratto.
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Solo questo sentivo, e davanti i miei occhi il fumo si propagava, migliaia di sofferenze in miniatura a contrapporsi a quelle a dimensioni naturali di cui sapevo fuori da quel freezer, fuori da quella casa, tutte cose che ora però mettevo da parte di fronte alla ripetizione di questa catastrofe. Nessuna collina sulla quale ripararsi.
In quel momento entrò Carol. Era priva di colori, una bellissima visione in bianco e nero che non mi impediva di immaginarla bionda, di nero vestita mentre fumava una sigaretta. Occhiali da sole a proteggerle gli occhi. Non sembrava sorpresa di vedermi lì né incuriosita dalla confusione che regnava nel suo freezer.
Scavalcando i pezzi di ghiaccio e acqua disseminati per la sua cucina, mi si avvicinò fino a toccarmi la punta del naso con il suo. Si sfilò lentamente gli occhiali da sole e rimase a fissarmi con i suoi occhi grandissimi. Erano color ghiaccio e non si muovevano mentre pronunciava l’unica frase che le abbia sentito pronunciare.
Questo frigo è vecchio di dodici anni.
Cosa possiamo fare? era l’unica domanda che mi veniva di farle. Se una persona è viva può fare sempre due sole cose. Una è attendere. L’altra è agire. Io quando ho agito l’ultima volta? Non me lo ricordavo più. Ormai è un pezzo che non classifico più lo studiare nella lista delle azioni. È più un riflesso condizionato, una sorta di gargarismo mentale che si fa per abitudine in vista della prossima prova scritta del prossimo concorso pubblico pilotato. Mentre ci pensavo fissavo le Torri bruciare e vedevo dalle finestre minuscoli omini semi sciolti sventolare stracci bianchi dalle lucide finestre spalancate.
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E poi lo trovai, l’uomo che cade.
Non avevo dimenticato le sue immagini. Il suo precipitare senza speranza, lui che poche ore prima credeva fosse una giornata normale, davanti a quel fottuto Dell a compilare fogli Excel e la vita è così imprevedibile che mentre vorticava in aria pensava che mai avrebbe immaginato di rimpiangere quella routine con l’aria condizionata mentre ora l’adrenalina era ovunque ed il terrore pure mentre l’asfalto si avvicinava. Vedevo questo signore salire sul bordo della finestra e guardare a destra e sinistra, alla ricerca di una qualche soluzione razionale che non era di questo secolo. E poi si sarebbe lanciato nel vuoto. Era una storia che ricordavo molto bene. Nonostante il fumo infilai la testa nel freezer per vedere da vicino questi esseri viventi arrampicati sulle finestre a cercare una via d’uscita che non esiste.
Quando il fumo iniziò a farsi da parte ricordo me stesso trasalire per lo stupore e battere la testa sul ”soffitto” del freezer.
Questi omini avevano i volti dei miei amici laureati senza lavoro. C’erano tutti, anche quelli più lontani.
E c’ero io. Con la montatura in osso ante operazione che ero costretto ad indossare a quei tempi. In bilico su questo grattacielo in fiamme pronto a crollare troppo velocemente. Adesso era davvero arrivato il tempo di agire sul serio. Temporeggiare non avrebbe più funzionato.
Occorreva buttarsi.
Ed il mio me stesso di ghiaccio lo fece.
Lo vedevo vorticare inerme nell’aria torbida di una New York sotto attacco come, dodici anni dopo, lo erano Bologna, Milano, Sciacca e la meravigliosa Roma abbandonata che conoscevo. La città fantasma più bella di tutti i tempi. Volevo allungare le mani per cercare di salvare la copia in miniatura di me stesso che precipitava dalla Torre Nord del World Trade Center in un limpido pomeriggio newyorkese ma non mi era possibile interferire con gli eventi che avvenivano nel freezer della glaciale Carol in bianco e nero. Potevo solo rivederli sperando di trarne un qualche tardivo insegnamento.
Stavo per atterrare quando mi voltai verso Carol per non guardare, in lacrime per questa tragedia sottozero che mi toccava rivivere dopo molti anni. Carol non aveva smesso di fissarmi. Mi aveva preso la testa fra le sue mani scolorite e mentre lo faceva il ronzio ci sovrastava:
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In ogni caso prima di perdere i sensi ricordo di averla vista muovere le labbra e scandire chiaramente alcune parole ben precise:
Questo frigo è vecchio di dodici anni.
Poi il ronzio dei pompieri e della folla che moriva sovrastò tutto, compresa la mia coscienza.
Quando mi risvegliai non c’erano stati fantasmagorici cambi di scenario. La pioggia continuava a battere sui tetti bonificati un mese fa dall’eternit e le dita dei mendicanti raccoglievano le monete dai cappelli fradici deposti sul marciapiede. Giacevo disteso sul pavimento della cucina di Carol. Il freezer era ancora spalancato, con un mare di schiuma bianca fuoriuscita ai piedi del frigo a ricordarmi alcuni capodogli che avevo visto spiaggiati un giorno qualsiasi dopo l’undici settembre nei dintorni di Capojale. Gli unici oggetti che riuscivo a riconoscere erano qualche pericoloso taglierino, la miniatura di un passaporto statunitense intestato a un certo Mohamed Atta e alcuni frammenti della mia famigerata montatura di osso ante operazione.
Marco Rinaldi
1 comment
mar says:
ott 3, 2013
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