Racconto breve di Giorgio Michelangelo Fabbrucci
Le vicende narrate sono tratte da 140.000 storie vere l’anno (100% Made in Italy)
Pochi centimetri di cielo, imperlati di sudore, coronati da una chioma rosso fuoco.
Il regno dei cieli mi si presentò così. Un movimento sussultorio costante, interrotto da dialoghi monotoni, quasi sempre identici ai precedenti, tra sbuffi grigi di aliti invernali e labbra rugose di rossetto.
Il bar, il supermercato, la passeggiata, l’armadio. Le tappe eterne dell’anima mia imbalsamata.
Pochi attimi prima del grande buio, vidi un ruscello, animato da pesci guizzanti. La radura erbosa, ancora bagnata di pioggia, che verde avvolge i tronchi torti delle latifoglie… e folli corse al vento, che l’aria ti riempie le narici e fa lacrimare gli occhi, per spegnersi esausti la notte, nell’umido tepore della terra viva.
Ma questa era solo immaginazione.
Il buio. Ricordo la piccola stanza in cui nacqui. Le pareti, come in un presepe improvvisato, agghindate di paglia sporca e pungente. Mia madre ci dispose in cerchio. Un cerchio piccolo piccolo, che si faceva minuscolo quando, come ciambelle, riposavamo sul suo ventre.
Tondi erano i suoi occhi, di una luce spenta, quasi grigia, morbida d’amore come cera, di una candela che voleva essere falò.
Di tanto in tanto uno di noi scappava. Si intrufolava nell’unico buchetto che, tra la paglia, spifferava gelido versi.
Mamma ci recuperava presto, ci rimetteva al posto, in quel cerchio magico che tosto, sparì.
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– Signora Pina, come sta?
– Ma bene, grazie, lei?
– Bene. Mi era sembrata di vederla! Sempre così elegante lei…
– Sì, beh, non esageriamo… le solite cose. Lei cosa mi racconta? Sua figlia?
– Oh, non me ne parli. Da quando è diventata mamma non fa altro che parlare del nido e a insistere, insistere… Gliel’ho detto più di una volta che non pensavo di aver messo al mondo una donna così pedante, eppure. Insiste con il dire che costa troppo e che dovrei farmene carico io. Ma io dico: è vero che siamo vecchiette, ma anche noi abbiamo diritto alla nostra libertà. Dopo tanti sacrifici non mi immagino certo di stare chiusa in casa dalle quattro alle otto con mio nipote.
– Sì è perso proprio il senso della misura. Guardi me. Sono ancora tutta un’energia. Non mi lascio certo intimorire dall’età. Anzi, le dirò di più: io me ne frego e la combatto!
– Vedo! Che bello questo colore rosso fiammante. Proprio bello! Proprio una ragazzina!
– Lo confido solo a lei… cinesi!
– Vuole dire…
– Ma certo, i parrucchieri. Cinesi. Dodici euro e le fanno il colore senza batter ciglio… e son bravi sa?
– Ma dice?
– Ma certo, hanno studiato tutti. Anni e anni di scuola da parrucchiere a Pechino. Anche mio cognato, che esporta in Cina, me lo dice sempre che quelli là sono il futuro. Non come da noi che è tutto un controllo e non si può più fare nulla. Così li prendono fin da piccoli, perché già all’asilo capiscono che da grandi faranno i parrucchieri! E poi vengono qua e dato che hanno voglia di lavorare (non come i nostri) comprano e via, che servono anche venti o trenta signore al giorno.
Bisognerebbe imparare da loro. Testa bassa e farsi poche domande, che tanto, in un modo o nell’altro, il lavoro arriva.
– Ma lei si fida?
– Per il colore dice? Perché secondo lei i nostri sono migliori? Ma guardi che di porcherie ce ne sono ovunque.
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Mamma scomparve. Dei miei fratelli ascoltavo solo la voce, di tanto in tanto, lontana.
Il fato mi diede in sorte una casa di pochi centimetri. Non mi trovai mai a mio agio. Forse perché trasparente, forse perché formata da una rete di buchi, quadrati, ghiacciati.
Lunga due volte il mio corpo, larga il doppio della mia larghezza. Non potevo girarmi senza scontrare il volto sulla griglia.
Divisi le mie giornate a metà. Nella prima guardavo la mia gente. Una fila infinita di case disposte su due e tre file, colme di pelo. Guardavo negli occhi i miei compagni. Mi bastava questo per ammazzare il tempo. Imparai a memoria tutti i gesti e le movenze, fino a dove il mio sguardo riusciva a pescare: Byron, con un occhio rosso, completamente fuori dall’orbita, girava costantemente su se stesso; Albert, più mesto e riflessivo, era uso toccarsi in modo ossessivo lo squarcio che aveva sulla fronte; Pitagora rimaneva immobile, come addormentato, di giorno in giorno più puzzolente, probabilmente indaffarato nelle sue elucubrazioni.
Nella seconda metà della giornata guardavo il mondo. Le nostre tane erano coperte da un tetto, ma la parte terminale si affacciava sul vuoto. Un prato spoglio, cani da guardia annoiati e poi il vento, la pioggia, la nebbia.
Dando le spalle ai miei simili, osservavo ogni stelo d’erba danzare, rivolto al fosco cielo.
Le foglie si fecero rosse. Si accumularono in grandi tumuli. Si salutarono tra caotici mulinelli.
E poi decisi di correre.
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– Signora Pina, come sta?
– Ma bene, grazie, lei?
– Bene, anche se, ogni volta che la vedo, a essere sincera, mi domando come faccia a rimanere così in forma!
– Sempre gentile… guardi, basta organizzarsi. Ma lei piuttosto? Come mai così trafelata?
– Mio figlio, l’ultimo, quel disgraziato, vuol sempre correre. “Mamma scendo”, mi dice. E io lì, chiusa in casa a sperare che qualche malintenzionato non lo molesti, o che qualche automobile non lo investa.
– Guardi, si è proprio perso il senso della misura. Il cellulare almeno lo usa? Mio nipote ha l’obbligo categorico di chiamarmi almeno tre volte al giorno, almeno posso monitorare la situazione. E se non chiama sa cosa succede? Non gli faccio vedere i cartoni animati. Perché quando ci vuole ci vuole.
– Ma signora, il cellulare certo che gliel’ho dato! Ma lui non ci sente. Anzi, corre e poi lo rompe. Io proprio non lo capisco. Ha questo desiderio addosso… e poi non sa come mi torna a casa: tutto lercio, che devo fare una lavatrice solo per lui.
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Guardare non mi bastò più. Decisi di correre.
Avrei preferito fuori casa. Non mi era possibile: dacché nacqui non avevo notato né porte, né uscite. E poi tutti correvano dopo qualche mese, avanti e indietro, avanti e indietro. Così anch’io guardando Byron, che ora mai l’occhio gli era caduto per terra, iniziai a correre avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro. Che poi anche se non c’é tanto spazio cosa importa. Basta alzarsi di pochetto con le zampe sulla parete e poi girarsi di colpo per poter andare avanti e indietro, avanti e indietro, è vero che ti graffi e che si perde il sangue o che altri camminano sugli altri o che diventano nervosi perché non riescono a correre avanti e indietro avanti e indietro avanti e indietro avanti e indietro e infatti anche nella casa di Pitagora c’è uno nuovo che gli cammina sopra ma è bravo perché se ne frega di Pitagora e corre avanti e indietro avanti e indietro avanti e indietro avanti e indietro avanti e indietro avanti e indietro.
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– Signora Pina, come sta?
– Ma bene, grazie, lei?
– Abbastanza bene, grazie. Com’é elegante quest’oggi!
– Sì, beh, grazie… non esageriamo… le solite cose… ma piuttosto, suo figlio come sta?
– Ha appena perso il lavoro, poverino.
– Eh sì, con la crisi, non si sa proprio da che parte guardare.
– Mi scusi se mi permetto…
– Mi dica, ci mancherebbe.
– Non è che suo cognato, che ha aperto quella sua nuova attività con la Cina, avrebbe bisogno di qualche d’uno di volenteroso. Anche un lavoro umile sa?
– Guardi, ci metto proprio una buona parola. Mi fa piacere aiutare suo figlio. Sapesse quante ne ha passate mio cognato per aprire! Si è perso proprio il senso della misura. Con tutta la crisi che c’é sono più importanti quattro bestie di tutta la gente che sta a casa senza uno stipendio. Ma io non so proprio cosa dire! Comunque stia tranquilla, che la buona parola ce la metto proprio volentieri!
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Venne il freddo e la fame. La luce della grande luna illuminava le notti. Il buio non cadeva più. Fioccava la neve. Le nostre corse si spensero.
Il sibilo. Solo il sibilo del vento si poteva udire. Solo il sibilo del vento correva tra le nostre case bucate.
Ci guardavamo di tanto in tanto, alzando il capo tra la pelliccia, che di giorno in giorno si infoltiva.
Le punte del manto, come aghi, infilzavano la neve. Sciogliendosi, una fitta di ghiaccio penetrava la pelle. Mi concentrai. Appallottolato, rintanato. Come un cucciolo, stavo acciambellato. Solo. Il cerchio stava per chiudersi.
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– Mi ha detto la Pina che sei un ragazzo di buona volontà!
– Sì, è vero. A me mi interessa solo di lavorare. A me mi piacciono i lavori nuovi.
– Benone! Allora oggi ti insegnerò un sacco di cose nuove. Seguimi.
I due uomini si avvicinano alla rimessa di un grande capanno. Entrano. Con un piccolo muletto prendono un contenitore. Ha la forma di un congelatore, oppure di un grosso baule. Sarà alto più o meno un metro e largo il doppio. Escono dalla rimessa e posizionano il mezzo, con il contenitore, davanti al capanno.
– Vieni che andiamo a prendere il motorino.
Ritornano alla rimessa. Raccolgono un motore a scoppio di piccole dimensioni. Usciti dalla rimessa lo posizionano sul contenitore. Collegano il motore ad un tubo, che viene inserito in un foro.
– Ora metti in moto il muletto, accendi il motore e entra nel capanno. Io faccio il resto.
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Un trambusto ci svegliò. Le trombe dell’apocalisse facevano vibrare tutte le case. Venivano inclinate e poi colpite una, due, tre volte. Forse era venuto il tempo di cambiare dimora. Ma quel suono spaventoso mi diceva che dovevo rimanere. Così mi aggrappai forte ai buchi di casa mia. Ero sfinito. Non mangiavo da giorni, il freddo mi aveva lasciato intorpidito. Eppure ci provai. Lo squillo di trombe si avvicinò, fino a gridare forte nel mio petto, nella mia testa. La mia casa si inclinò. Il terremoto. Mi feci forza, chiusi gli occhi, tesi gli arti, mi appiattii per non lasciarmi cadere. Il terremoto era troppo forte, e dopo uno, due, tre colpi, crollai.
Percepii l’odore di Byron, l’acre marciume delle carni di Pitagora e decine di altri fratelli mi caddero addosso: Francesco, Franklin, Ovidio, Marco Aurelio, Ghandi, Cicerone, Mazzini.
Il buio ci crollò in testa, schiacciati gli uni sugli altri.
Alcuni di noi, ed io con loro, riuscirono a scavalcare i corpi, iniziando a grattare sulle pareti. Volevamo uscire da quella scatola, ma ogni tentativo fu vano. Esausto mi lasciai cadere sugli altri, e come gli altri, iniziai ad urlare senza sosta.
Un insolito vento caldo e puzzolente riempì la scatola. Vomitavamo, pisciavamo, tossivamo.
In quell’inferno mi si avvicinò mia madre, o così mi parve, e mi disse:
“Eccolo qua il mio piccolo visone! Non ti preoccupare, è tutto finito”.
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Venimmo estratti dalla camera a gas, inseriti su una carrucola.
Venimmo scuoiati. Alcuni di noi, miracolosamente sopravvissuti, morirono mentre la pelle veniva loro staccata dalle carni.
Sono nato e morto, nove mesi dopo, nell’allevamento di visoni di Misano Gera D’adda.
Quasi tutti finirono in Cina, dove la pelliccia Made in Italy è molto apprezzata.
Io, per la bellezza del mio vello, venni regalato alla Signora Pina, madre del proprietario.
Il mio corpo giace sulle spalle di lei, in pochi e maledetti centimetri di cielo.
Giorgio Michelangelo Fabbrucci [email protected]
7 agosto 2013
bellissimo racconto,l’ho letto tutto d’un fiato e apprezzato,chiara