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Recensione di Alfredo Perna

Anche quest’anno il comitato direttivo del Premio Strega ha designato altri Amici della domenica. I nuovi componenti entreranno così a far parte del corpo votante dello storico concorso, comprendente quattrocento uomini e donne di cultura, che ogni anno premia un libro di narrativa italiana. Concorre ad assegnare il premio anche un gruppo di 60 lettori forti, che ruotano di anno in anno, selezionati dalle librerie indipendenti italiane, e si può contare quest’anno anche sui voti collettivi espressi da 40 scuole del progetto 2013. Per un totale di 460 votanti.

Nonostante ciò, non posso far a meno di chiedermi se, in fondo, il Premio Strega abbia davvero bisogno di una tale giuria. Per quali ragioni?!

La prima riguarda le opere partecipanti al concorso. Libri in grado di prestarsi a certe regole silenziose e invisibili in modo da essere un prodotto da premio. In altre parole, si richiede un testo di facile lettura, principalmente diretto ad un pubblico medio e quindi vendibile: in modo da ottenere dei buoni risultati commerciali. La seconda ragione riguarda l’insorgere delle solite polemiche, appena dopo l’assegnazione dello Strega. Gli argomenti più gettonati diventano: la poca trasparenza, i dubbi, e le pressioni sui giurati. Argomenti non poco importanti se considerati in chiave d’assegnazione della tanto agognata striscia gialla. La dicitura Vincitore del Premio Strega posta sulle copertine dei libri ha da sola la forza decidere, durante l’arco dell’estate, quale libro sarà venduto maggiormente.

Quest’anno, nella cinquina dei finalisti, è stato annunciato, tra gli altri, il romanzo di Simona Sparaco: “Nessuno sa di noi”. Il portale degli Alieni Metropolitani mi ha chiesto di leggerlo e recensirlo. Che cosa dire del romanzo?

La storia si districa nelle vite alto borghesi di Luce e Pietro, una coppia stabile e felice che, dopo svariati tentativi, è finalmente in attesa di un bambino. Non stanno più nella pelle, perché ci sono voluti anni per arrivare fin lì, anni di calcoli esasperati col calendario alla mano, di sesso telecomandato, di speranze e false attese. Ma ora sembra la volta buona, e tutto pare debba andare in maniera decisamente diversa. Quando si recano in ambulatorio per fare una delle ultime ecografie prima del parto lei è al settimo mese e lui al settimo cielo.

Luce è una giornalista free lance. Cura una rubrica su di una rivista non meglio specificata, dove dispensa consigli ai lettori con la stessa leggerezza con cui si darebbero caramelle ai bambini. Pietro è uno yuppie. Oggi, nella sala d’attesa dello studio medico, sfoggia, senza timore, il maglione a scacchi verde e blu (quello della laurea), con i pelucchi e i fili che pendono da tutte le parti. È il suo pullover scaramantico. Lo indossa solo nelle occasioni più importanti. Sfortunatamente nessun buon auspicio s’avvera in quell’ambulatorio. Non appena il piccolo Lorenzo appare sul monitor, il dottore evince che c’è qualcosa che non va. Il bambino è affetto da displasia scheletrica, in una delle sue forme più letali che potrebbe farlo nascere morto o addirittura condurlo in una vita dolorosa e piena di sofferenza. Cosa fare, allora?

Probabilmente questa domanda se la porrebbe una persona qualsiasi, di sicuro una non facoltosa e che non fa parte di certi ambienti. Nel mondo dei giovani rampolli, come quello a cui appartiene Pietro, esiste un dizionario speciale in cui la parola impossibile non esiste. Essendo Luce incapace, di fronte a certe responsabilità, di compiere una scelta, può permettersi di trovarsi totalmente in balìa di Pietro (“… che è così saldo e possente”), pronto a prendere immediatamente le redini della situazione e a convincere la sua compagna a partire per l’Inghilterra, perché lì diversamente dall’Italia interrompere la gravidanza oltre la ventitreesima settimana non è infanticidio. Si recano presso la clinica del dott. Wilson, un luminare nel campo della neonatologia, in modo che Luce – anche se non è troppo convinta – potrà sottoporsi all’aborto terapeutico. Poco tempo dopo, per superare la brutta esperienza del parto anticipato, la coppia si concede una vacanza distensiva in Tailandia per affogare il dolore della perdita. Qui Luce comincia a scavare nella sua vita. Riflette e si dice: in fondo, il mio compagno è stato sempre un tipo troppo sicuro di sé (“Un giorno ripenserò alla spietata lucidità di Pietro, a questa sua fretta di arrivare alla fine”); riflette e si dice: in fondo, non è stato il mio compagno a sentir mio figlio scalciare nella pancia per sette mesi come ho potuto io. Riflette e si dice: in fondo, questa vacanza non mi è affatto servita, anzi. Al ritorno dal viaggio lei si sente morta dentro e Pietro non riesce a darle la forza che le servirebbe. A poco a poco il loro rapporto, proprio per colpa di quel parto non riuscito, è destinato ad arenarsi; (ed entra di nuovo in gioco l’allegoria del pullover: “Guardo dentro il cestino e lo vedo: il maglione a scacchi verde e blu di Pietro, appallottolato sul fondo. Quello con i pelucchi e i fili che pendono da tutte le parti. Quello delle occasioni speciali”). A poco a poco Luce prova a venir fuori da questo periodo no. E un bel giorno, per puro caso, riesce ad imbattersi in un forum di donne con esperienze simili. Così senza quasi rendersene conto proprio dal suo dolore ricomincia la salita.

Se da un lato il romanzo della Sparaco è un invito alla riflessione (la displasia scheletrica è una malattia di cui si parla ancora poco), dall’altro l’impressione del bambino affetto da un handicap e non destinato a trovare spazio in un mondo troppo snob e perbenista come quello di Luce e Pietro è abbastanza evidente. Basta leggere cosa scrive Violadimare, una delle tante chatter del Forum «lospaziorosa.com» dove Luce trova “rifugio”: “Sarei proprio curiosa di capire come ve lo immaginate, voi, questo Signore. Perché a parer vostro dovrebbe voler infliggere tante sofferenze a un bambino che ancora non è neanche nato? E riguardo agli strumenti che la scienza ci offre per le diagnosi prenatali? Sono o non sono frutto di quello stesso progresso che oggi ci consente di sconfiggere malattie che fino a poco tempo fa erano considerate incurabili?”

E l’aborto finisce per diventare, in tal modo, una soluzione sin troppo facile.

Come se non bastasse, oltre a Luce e Pietro, l’autrice ci regala una galleria di personaggi di cui la letteratura italiana non ne sentiva assolutamente bisogno: la glaciale Matilde che odia la nuora come da copione; la madre di Luce sempre a chiedere denaro e a lamentarsi per il ritardo dell’ennesimo bonifico della figlia; l’ambiguo Romano “padre ideale” (?) di Luce; Ivan e Neri – gli amici più cari di Luce e per questo rigorosamente gay – che “danno una festa per celebrare il decimo anno della società che hanno fondato insieme, un ufficio stampa che lavora per diverse case di moda”.

Scrittura blanda, poche idee e una storia che non decolla mai. Mi piace pensare che questo libro probabilmente sia destinato ad un pubblico di lettori dalla bocca buona, senza alcuna pretesa e non rappresenta nella maniera più assoluta la letteratura italiana. Nessuno sa di noi di Simona Sparaco è in ogni caso uno di quei tipici romanzi di cui nessuno ne sentiva la necessità. Così come, sempre a parere di chi scrive, non doveva esservi alcuna esigenza di candidarlo ad un premio, anche se il Premio in questione è lo Strega. 

 
Alfredo Perna
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