Racconto proposto da Ornella Spagnulo
Qualche capello in testa l’avevo già appena nata. Ricci e poi lisci, i miei capelli sembrarono un ingombro a mia madre che, quando avevo cinque anni, decise di portarmi dal parrucchiere per sussurrargli un taglio radicale, mentre credevo si trattasse solo di eliminare pochi centimetri. In testa, quando andavo alle elementari – una scuola di suore – mi capitò, per un periodo lungo non so dire quanti mesi, di ritrovarmi un buco da cui usciva sangue. Questo perché mi era stato imposto di sedermi appena sotto la finestra, e chi la voleva aperta, chi la voleva socchiusa, insomma la finestra rimaneva pendente sopra la mia testa ed io, alzandomi di fretta per andare a un’interrogazione, o in bagno, o per uscire dalla classe, ci battevo la testa e mi facevo male. Ma senza lamentarmi.
Le sopracciglia diventarono un problema, anzi una questione di vita e di morte, quando ero adolescente. Scrutavo le ragazze della mia età, sull’autobus mi sembravano tutte belle e curate con delle sopracciglia rifinite al dettaglio. A me nessuno aveva mai detto che, a una certa età, le ragazzine si dedicano all’assottigliamento delle proprie sopracciglia. Così tornavo a casa e a mia madre spiegavo quel dubbio, un vero mistero: perché io avevo sopracciglia così spesse? Chi mi avrebbe potuto aiutare a rifinirle? Mamma disse che dopo aver osservato bene le sopracciglia che si vedevano in giro avrei potuto capire quale fosse la moda del momento e sarei riuscita io stessa, armata di pinzetta, a disegnarmi delle bellissime sopracciglia. Fermo restando che, secondo mia madre, le mie erano già belle così e che non avevo nessun bisogno di rimpicciolirle.
I miei occhi sono un capitolo a parte. Da piccola ho ricevuto così tante lodi ai miei occhi, dolci, espressivi, profondi e intelligenti, che gli occhi a sentirsi elogiare così tanto si sono inibiti e hanno richiesto gli occhiali. A vent’anni ho subito un’operazione con il laser a un occhio: hanno chiuso un piccolo foro nella retina. E l’oculista ebbe una gran pazienza a tentare di convincere mia madre che non era colpa dei poliziotti e dei loro lacrimogeni se si era verificato quel foro, durante una delle tante manifestazioni a cui avevo partecipato. Comunque, a distanza di quasi dieci anni, mia madre è ancora convintissima che la colpa sia della polizia.
Le lacrime che sono scese sul mio viso hanno avuto tante origini e ragioni. Tra le origini: il cuore, la testa, la pancia. Tra le ragioni: la solitudine, l’incomprensione, la perdita dell’amore. Ma sono poi scivolate via così velocemente, e hanno causato così bei voli di pensieri e di azioni, che non faccio che lodarle. Le lodo in assenza.
Il mio naso ha una narice semichiusa. Questo mi impedisce di respirare come tutti gli altri: faccio più fatica. Ci vorrebbe un’operazione ma non ho grande voglia di operarmi, per questo lascio il mio naso così com’è. Con anni di pratica di yoga ho trovato il modo per recuperare l’ossigeno in difetto e capire che, per vivere in questa parte del mondo occidentale, quell’ossigeno non serve. Serve solo a rimarcare una diversità più assoluta dagli altri.
Vari uomini hanno baciato la mia bocca. Non parlo di grandi numeri, ma di quella decina di ragazzi che mi rendono ancora irrequieta a distanza di anni, quando mi chiedo se forse con questo o con quest’altro poteva funzionare. Invece sono sola. La mia bocca è sempre stata generosa nei baci ma anche fredda nelle parole. Sincera fino all’osso e fino al rimprovero altrui, trovo la loquacità perfetta solo quando mi sento capita e accettata. E questo avviene poco spesso.
Il collo vorrebbe unire nel migliore dei modi la mia razionalità e i sentimenti con la mia corporeità. Ma non ricordo ogni giorno di possedere una fisicità. Mi sento piuttosto aleatoria e rarefatta. Amo il mio collo e mi piace comandargli di fare giri su se stesso, verso destra poi verso sinistra, davanti e indietro con la testa. Con il collo è come se avessi firmato un contratto: mi sembra che sia lui a sostenermi, più che i piedi.
Andando giù: ho un seno. Sembra strano per una donna ribadirlo, ma per la mia femminilità martoriata a colpi di anoressia e bulimia e uomini sbagliati (e forse sono stati più gli uomini sbagliati a denigrarla) occorre ribadirlo e a volte ci penso e cerco di stare dritta con la schiena, e non curva. Il mio seno non va nascosto, ripeto per impararlo. Il mio seno ha cambiato così tante misure che io a stento lo riconosco. Ora ho una buona terza perché sono tornata a volergli bene. Ma in passato, lo ammetto, me ne volevo liberare. Era un problema, per me, essere donna in un mondo di uomini. Secondo la mia teoria, era giusto dimostrarsi femminili per un uomo soltanto: per il proprio uomo. Invece mi toccava esibire o non nascondere il mio corpo, senza curvarlo, senza farne un orrore, anche davanti a uomini a cui non mi concedevo e anzi, davanti a uomini a cui concedermi mi sarebbe sembrato poco meno di un delitto.
La mia pancia è sempre gonfia. Forse per bilanciare il seno – e la femminilità – ho una pancia molto materna che rifugge certo da ogni immaginario erotico ma ispira molto senso materno. Tutto il mio istinto di maternità è espresso dalla mia pancia, nella mia testa non ce n’è nemmeno un po’. Una volta, quando feci l’amore con un ragazzo che ricordo – a distanza di anni – come il miglior sesso che ho fatto finora, lui alla fine voleva con la sigaretta accesa lasciarmi un ricordo indelebile di quel giorno, appoggiando leggermente la sigaretta sulla mia pancia. Mi rifiutai a quel gioco inutile, le cose si ricordano lo stesso, e a dire il vero non ricordo neanche più molto di quell’incontro. Come se fare bene il sesso non significasse niente. È più importante amare bene, anche senza sesso. Ma questo lo dice la mia memoria che risiede sulla testa appoggiata sul collo, e tutto il resto è inconsistente
Le braccia, come le gambe, sono strumenti utili. Voglio loro bene ma non mi ricordano gesta particolari. Non sono una sorta di cavaliera, posso ricordare quando ho fatto beneficienza per i barboni, posso ricordare le corse dal pub dove io e le mie amiche non avevamo pagato. Posso ricordare tante cose, ma forse ricordo solo un abbraccio.
I piedi mi danno dimora, sono i miei punti d’appoggio per i miei voli. Quanto li trascuro! Sempre con la testa per aria, i piedi li guardo poco. “Bisogna andarci con i piedi di piombo”, ecco, quest’espressione l’ho sentita pronunciare, e quante volte! Ma non mi appartiene affatto.
Ognuno sa che cosa gli appartiene. Anche del proprio corpo. Ci sono delle cose che non ti apparterranno mai. Le puoi solo descrivere, osservare, puoi pregare che funzioneranno bene ma spesso i nostri arti sono prestati al mondo e a volte non ce li restituisce più.
Ornella Spagnulo http://www.cronacadiunavitaint
15 luglio 2016
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24 febbraio 2017
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