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Racconto breve proposto da Fabio Gaccioli

Sono sdraiato con le mani incrociate dietro la testa. Guardo il soffitto e ascolto il rumore della doccia che viene dal bagno. La camera da letto è illuminata dalla luce di questo mattino di pieno inverno.

Ancora non nevica ma se ne sente la promessa. Ho in testa una frase che gira a loop, con instancabile fiacca.

La frase è questa: lapioggia mormora piano/il ritmo regolare del tuo respiro/in camera da letto.

Mi è venuta in mente senza volerlo. Avanza e ritorna incespicando. Interrompendosi. E’ come se ci fosse un fiato tra un’immagine e l’altra. Me le rigiro in testa da circa venti minuti. Più o meno il tempo che ci sta mettendo Anna a farsi la doccia.

La capisco, la frase. Ha senso. Ho iniziato a pensarla quando ero in cantiere, al lavoro qualche metro sotto terra. Stavo allargando il passaggio con il motopicco mentre Said puntellava il soffitto che piangeva terra al passare delle auto sulla strada.

Non è semplice lavorare sotto terra. Anche manovrare il motopicco diventa difficoltoso. Tenerlo fermo e cercare di avere pazienza, mentre ti sforzi di allungare il tempo della presa per finire prima il lavoro, per essere libero di tornare in superficie.

Non è facile lavorare sotto terra. me lo sono ripetuto per tre giorni di fila. Poi, ieri che era il quarto, mi sono stancato di ripetermi sempre la stessa cosa, e ho pensato a qualcosa di diverso. La frase mi è venuta in mente così, con la sua pausazione, pecrhè ho bisogno di farmela durare il tempo necessario.

Con le pause in mezzo mi stanco meno di pensarla. L’unica cosa che non capisco, è la pioggia.

Anna esce dal bagno con indosso l’accappatoio, scalza. Apre un cassetto e infila nella presa dell’habat jour il phon. Siede e inizia ad asciugarsi i capelli. Mi da le spalle. L’orlo dell’accappatoio le lascia scoperta la pelle. C’è un buon odore di pulito nella stanza.

la pioggia mormora piano/il ritmo regolare del tuo respiro/in camera da letto.

“Ci sei?” Alza un poco il tono di voce per coprire il rumore del phon. “Non ti si sente più.” dice.

“Ci sono, ci sono…” Non ho molta voglia di parlare. Mi rigiro in testa la frase a loop, come ho fatto tutta la giornata di ieri, e questo è quanto. Vorrei che bastasse. Che fosse sufficiente.

Anna spegne il phon, si volta appena: “perchè mi guardi?” chiede.

“Io ti sto guardando?”

“Si, mi stavi guardando.”

“Davvero ti stavo guardando?”

“Si, davvero.”

“Allora forse ti stavo guardando.”

Anna scuote il capo. Sorride. Torna ad accendere il phon, e a darmi le spalle.

Non riesco a capire la pioggia. E’ passato un pezzo dall’ultima volta che ha piovuto. Oggi fuori è secco. Un freddo secco e violento che ti spinge a camminare rapido. L’erba nei campi è di un verde morente. La terra ha la durezza del cemento. Mentre venivo a casa di Anna mi sono fermato a bere l’acqua da una fontanella. Mi ha fatto male alla bocca.

la pioggia mormora piano/il ritmo regolare del tuo respiro/in camera da letto.

“Sono contenta che oggi non lavori.” Anna si toglie l’accappatoio. Le vedo la schiena nuda e mi viene voglia di toccarla.

Mi giro invece su un fianco e dal comodino pesco il pacchetto di Camel. Ne accendo una. La passo ad Anna. Poi accendo la mia. Anna si infila sotto le coperte e da un tiro. Butta fuori il fumo quasi senza respirarlo. Dopo tre tiri si sporge dal suo lato del letto e spegne la sigaretta nel portacenere. Mi abbraccia stringedomisi al fianco.

“A cosa stai pensando?” mi chiede.

“A nulla.” Rispondo. Il che, in un certo senso, è vero. Penso la frase che mi gira in testa da quasi due giorni.

“Fumi troppo” Anna mi prende una mano. La apre e ci passa sopra la sua. Una volta ha detto che le piacciono le mie mani. Le danno un senso, come aveva detto? Di protezione… una cosa così. Per conto mio, faccio fatica a chiuderle in questo periodo.

Oggi il cantiere è chiuso. Oggi è sabato. E’ la seconda cosa che ho pensato quando mi sono svegliato. La prima, dopo aver guardato la radiosveglia, è stata: cazzo sono in ritardo.

la pioggia mormora piano/il ritmo regolare del tuo respiro/in camera da letto.

“Ho visto Said questa mattina in edicola.” Le dico. “Comprava un giornale scritto in arabo che, mi ha spiegato, pubblicano apposta per lui. Cioè, per quelli della sua etnia.”

Anna mi ha chiesto chi è Said. Allora le ho spiegato che io e Said siamo gli ultimi arrivati in cantiere. Said ha diciannove anni. Stiamo cercando una fogna. Lavoriamo gomito a gomito tre metri sotto al manto stradale. E’ buio là sotto e si suda nei giacconi, anche se fuori siamo sotto lo zero. Stiamo scavando da una settimana e di questa fogna non c’è traccia. Abbiamo cavato terra per una cinquantina di metri, e della fogna nemmeno l’ombra. Ci infiliamo in quel buco ogni mattina da quattro giorni. Gli altri operai, primo fra tutti il capomastro, hanno aperto le scommesse. Scommettono su chi sarà il primo a rifiutarsi di scendere la sotto.

“Ti fermi a mangiare qui da me?” Chiede anna “Sono così contenta che mio marito stia via fino a dopo domani. non mi sembra vero.”

“Si, mi fermo.”

“Sei così silenzioso. che hai?”

“Nulla.”

“A cosa pensi?”

“A nulla.”

“Davvero?”

“Alla pioggia.”

“Alla pioggia? Ma oggi non piove.”

“E’ esattamente quello a cui stavo pensando.”

“Sei triste?”

“No, in questo momento no.”

“Ci stai bene qui con me?”

“Si, sto bene qui con te.”

“Anche io sto molto bene con te. Ti stai innamorando di me?”

“No.”

“Sarebbe un guaio, se tu ti innamorassi.”

“Non mi innamoro.”

“Sicuro?”

“Certo che sono sicuro.”

“Allora perchè sei venuto a casa mia oggi, per fari una scopata e basta?”

“Oh..su, non ho detto questo.”

“Invece mi sembra di si.”

“Sbagli.”

“Hai detto che non ti innamori.”

“E’ la verità, sei sposata.”

“Infatti sarebbe un guaio, se tu ti innamorassi.”

“Non mi innamoro.”

“Lo vedi? Allora sei venuto qui solo per scopare.”

“Senti” dico. Spengo la cicca. Mi metto a sedere. Anna si volta nella sua parte di letto. Mi alzo. Infilo mutande e pantaloni. Vado in bagno a pisciare. Quando torno in camera Anna ha in mano il mio maglione.

“Te ne stai andando?”

“Non lo so. tu vuoi che me ne vada?”

“Io non voglio che te ne vada.”

“Allora non me ne vado.” Dico “Fa comunque piuttosto freddo.”

Anna mi lancia il maglione. Poi si alza e va a chiudersi nel Gabinetto. Sento che gira la chiave nella toppa. Io mi metto il maglione e vado in cucina. Infilo due ciocchi di legna nella stufa. Prendo una pentola e metto l’acqua a scaldare. Accendo la tv e comincio ad apparecchiare per due. Sono le undici e un quarto. Su rai tre stanno trasmettendo il notiziario regionale, ma non lo stoascoltando.

la pioggia mormora piano/il ritmo regolare del tuo respiro/in camera da letto.

Sarebbe bello se piovesse appena un po. Sarebbe tutto più bello con la pioggia che cade e fa rumore sulle tegole e sui vetri delle finestre. Non ci sarebbe neppure bisogno di accendere la tv, se piovesse piano.

Nemmeno di parlare, o di alzarsi dal letto. Non avremmo nemmeno bisogno di mangiare, se piovesse un poco come dico io. Potremmo restarcene tranquilli sotto le coperte, ascoltare e stare zitti. Lasciare che la pioggia cada piano e riempia il vuoto tra una parola e l’altra.

A questo punto il cellulare che ho appoggiato sul ripiano di marmo del lavabo vibra, per via di un messaggio. Lo raccolgo e leggo:

- una volta un tale mi ha detto che ho gli occhi molto tristi. si nota davvero così tanto la mia infelicità? quando mi guardi negli occhi, tu cosa vedi? ho bisogno di saperlo. rispondimi. -

Abbasso la fiamma sotto la pentola. Vado di là e busso alla porta del gabinetto.

“Anna…”

Silenzio.

“Anna, apri.”

Silenzio.

“Ho letto il messaggio. Mi hai mandato un messaggio a un metro di distanza. Vieni fuori di lì, per favore.”

Sento il rumore di qualcosa che si sposta dientro la porta. Poi quello dello sciacquone. Indietreggio di un passo. Fisso lo sguardo sul pomello. Mi viene voglia di un’altra sigaretta.

Suonano all’ingresso. Busso alla porta del bagno.

“Suonano…” Dico “Anna, c’è qualcuno alla porta.”

Silenzio.

Quel qualcuno si ostina a scampanellare. Vado in cucina.

Scosto la tendina della finestra e cerco di guardare in direzione della porta d’ingresso. Vedo l’orlo di un pantalone, e basta.

L’orlo del pantalone suona ancora. Dovrei tornare di là e convincere anna ad uscire dal gabinetto, con le buone o con le cattive. E se rifiuta dovrei andare in camera, recuperare la giacca e svignarmela dalla finestra. Oppure restarmene assolutamente immobile, e zitto. Invece non faccio nessuna di queste cose. Vado alla porta e la apro, come se niente fosse.

“Lei è il signor…” Il postino indossa una pettorina giallo canarino. Tiene in mano una cartelletta.

“Si, sono io.” Lo interrompo.

“C’è una raccomandata per lei.” Dice il postino.

“Per me?”

“Se vuole mettere una firma qui, gentilmente.”

Mi porge la cartella - e una penna. Mi indica i punti in cui devo firmare. Raccolgo la penna e vergo un paio di scarabocchi col nome di un altro uomo.

Il postino guarda gli scarabocchi. Per un attimo ho come l’impressione che stia per dirmi qualcosa. Invece non dice nulla. Mi porge la lettera e, dopo avermi ringraziato, se ne va.

Chiudo la porta. Metto la busta sul tavolo. Torno di là. La porta del gabinetto è aperta. Vado in camera da letto. Anna è seduta sul bordo del letto. Ha l’accappatoio slacciato, aperto.

“Hai pianto?” Le domando.

“Chi era alla porta?” Mi domanda.

“Il postino.” Le rispondo. “Ha lasciato una raccomandata per tuo marito.”

“Una raccomandata? hai firmato tu?”

“Si, a nome suo.”

“Non dovevi.” Dice.

“Tu non uscivi da la dentro.” Dico.

“Non ha importanza” Dice “Non dovevi. Questo no. Tutto, ma questo no.”

“Non sapevo cos’altro fare.” Ho detto “Cos’altro avrei potuto fare secondo te? cos’altro si può fare?”

Anna si toglie l’accappatoio. Ci scivola sopra allungandosi sul letto. Mi avvicino. Mi spoglio in fretta e le entro dentro. Lei allaccia le gambe e mi trattiene. Mi tiene così anche quando abbiamo finito.

Resto a guardarla negli occhi. Vorrei dirle qualche cosa, ma non so trovare le parole. Dopo tutto, non ce ne sono. Non vedo perché dovrebbero essercene, cosa potrebbero dire in più di quello che non sappiamo già.

Le passo una mano sul viso, sulle labbra, quando mi sembra che stia per aprire bocca. C’è sempre qualcosa che manca, che non si trova, che non è mai al posto giusto. Forse andrebbe meglio se fossimo capaci di restarcene nudi, così, senza muoversi, senza parlare. Andrebbe meglio se fossimo capaci di accettarlo, di accettare le cose per come sono.

Mi rigiro in testa la solita frase.

La pioggia mormora piano,pausa. Il ritmo regolare del tuo respiro, pausa. In camera da letto, pausa.

La frase la capisco, ha senso. E’ esatta come una cronaca.

L’unica cosa che continuo a non capire, è la pioggia. Senza la pioggia, la cronaca, non dovrebbe avere niente da raccontare.

Fabio Gaccioli