Racconto breve di Marco La Terra
Il carretto si muove lentamente lungo la strada sterrata, fra maggese e campi di grano color dell’oro.
Il percorso si snoda rettilineo e regolare, in leggera discesa, tra il frinire delle cicale e, in lontananza, la rassicurante compagnia di mucche, vitelli e capre. Il cielo, screziato di rosa, si tinge lentamente d’azzurro e annuncia un giorno luminoso e denso di speranza.
Sulla pelle avverto lo spirare di una gradevole brezza mattutina che porta con sé odore di rugiada, mischiato agli inconfondibili effluvi del concime e del muschio qui intorno.
Non so come ci sono finito, su questa strada: l’unica cosa che ricordo è di essermi svegliato questa mattina, questa mattina come tutte le altre, e di non aver provato un’emozione particolare nella consapevolezza di essere ancora vivo.
Il mio nulla interiore ne ha semplicemente preso atto, mentre le sue escrescenze preparavano un caffè nero e bollente.
Insipido, come sempre.
Ho compiuto i soliti gesti, automatici e inconsapevoli, mentre mi vestivo per andare a lavoro, e nello scendere le scale di casa pensavo che la mia esistenza, spesa fra racconti da due soldi e incessanti letture, indici evidenti di una radicata asocialità, non ha davvero uno straccio di logica.
Del resto, quale esistenza ne ha?
La vostra, forse?
Non fatemi ridere.
Anche questa mattina, il mondo esterno stentava a comunicarmi emozioni tangibili o semplici sensazioni: come al solito, mi sono divertito a far implodere il cuore su se stesso, vittima innocente di pensieri ciechi e confusi.
Nulla interiore e suicidi emotivi: la solita merda che mi ristagna nel petto.
Mentre fumavo, nel vano tentativo di esorcizzare la paralisi spirituale che mi attanaglia ogni giorno, desideravo essere avvolto da una nube, densa e rassicurante, che mi rendesse invisibile agli occhi di tutti.
Del resto, il desiderio più radicato della mia esistenza, sin qui faticosamente vissuta, è sempre stato quello di scomparire: sarà vigliaccheria o inadeguatezza esistenziale, ma so per certo che le cose sono sempre andate così, nel mondo parallelo che sono costretto a vivere ogni giorno.
Mentre mi perdevo in simili fantasticherie, la rabbiosa ostinazione e l’atavica insofferenza che mi contraddistinguono pulsavano con forza nel mio animo, rendendomi inconsapevole di dove stessi andando, dentro e fuori di me.
L’unica cosa che riesco a ricordare adesso è che, nell’accingermi ad attraversare Via V., ho ripensato a quel tratto di strada che collega Zamora a Granja de Moreruela, lungo la Via della Plata, verso Santiago de Compostela: quaranta chilometri di inferno immersi in paesaggi che paiono disegnati da Van Gogh, per l’intensità dei colori generati dall’insostenibile sole agostano. Colori intensi, ardenti e selvaggi, che strappano dalla bocca maledizioni intrise di autentico dolore fisico, cui fa seguito la più completa serenità, una volta compreso che la sofferenza iniziale rappresenta un passaggio obbligato verso un mondo migliore, dentro se stessi.
Adoro certi ossimori.
Smarrito in queste riflessioni, mi sono ritrovato a calcare non più l’asfalto, liscio e regolare, che ogni giorno conduce il mio corpo sul posto di lavoro bensì sabbia, arenaria e sassi, che scricchiolano piacevolmente sotto i miei piedi, man mano che il carretto avanza.
E quindi eccomi qui, adesso, lungo questa strada aliena dallo spazio e dal tempo, mentre seguo a capo chino una folla di ombre indistinte che, altrettanto lentamente, segue l’insicuro avanzare del carretto.
In effetti, ho proprio l’impressione di trovarmi in coda a una processione di semplici spiriti: viste da dietro, le figure paiono sagome appena abbozzate, prive di tratti somatici definiti. Potrebbero essere uomini, donne, giovani o anziani.
Non so, non lo riesco a capire.
Mentre avanzo, scorgo in lontananza il carretto: stranamente, riesco a coglierne i minimi dettagli.
Esso è trainato da un vecchio ronzino dal pelo grigiastro che procede in mezzo all’arsura con la lingua penzoloni e il passo stanco: il carretto è composto da quattro assi orizzontali, inchiodate alla bell’e meglio sullo scheletro della struttura portante, e da un parapetto così basso da rendere plausibile il rischio che la bara, posta su di esso, si ribalti al minimo scossone. Infatti le ruote trainanti, grandi e a raggiera, presentano un battistrada molto sottile e sembrano composte dello stesso materiale di cui sono fatti il carro e la bara.
Legno marcio, marcio come il cadavere che giace nel feretro, il cui lezzo aumenta di intensità man mano che la processione avanza.
Sembro l’unico ad accorgersi di questo sgradevole dettaglio, a dire il vero, il solo a provare disagio e una forte sensazione di nausea con l’andar del cammino: le ombre continuano ad avanzare con passo regolare, come se nessun fenomeno naturale potesse alterare la loro andatura.
Cerco di non pensare al malessere che mi sta attanagliando le viscere e focalizzo l’attenzione sull’autista seduto a cassetta: con mio enorme stupore, il carretto sembra esserne privo, rivelandosi dunque un’entità a sé stante dietro cui le ombre e il sottoscritto camminano inconsapevoli, verso una meta ignota.
Mi concentro sulle ombre cercando di scorgerne qualche dettaglio.
Niente.
Nessuna voce, nessuna preghiera, nessun pianto.
Silenzio.
Solo silenzio.
Nient’altro che un lungo, intenso e angosciante silenzio, rotto solamente dal mio passo regolare: le ombre non emettono alcun suono, e più che camminare paiono fluttuare nell’aria.
A un certo punto, alla mia sinistra, una di esse estrae dalla tasca qualcosa che non riesco a scorgere.
Osservo con più attenzione: un rosario, che dio mi fulmini!
Un rosario candido come la neve, che riluce intensi bagliori sotto questo sole agostano.
L’ombra lo impugna con la mano sinistra e, con il pollice e l’indice della destra, comincia a sgranarne i chicchi, abbandonandosi a una litanìa che nulla c’entra con il silenzio sacrale creatosi sino a quel momento.
Un silenzio completo, irreale, artefatto, fragile e traditore come la vita.
Un silenzio spezzato da quell’incomprensibile voce rivolta a un’entità che non può essere ammessa, in questo luogo dimenticato da dio.
Ad un tratto, un vivido fuoco avvolge l’ombra raccolta in preghiera, e urla di terrore squarciano l’aria con una forza bestiale.
L’essere si getta per terra e comincia a scalciare, emettendo lunghi suoni gutturali simili a ululati, ululati intrisi di sofferenza.
Le mie gambe s’arrestano impietrite.
Immobili.
Impotenti.
Osservo il corpo che continua a urlare in preda a quel dolore lancinante, senza ricevere aiuto da nessuno: alla fine, dopo qualche minuto, rimane immobile e scomposto, disteso lungo la rena.
Intorno a me, le altre ombre si sono dileguate, dissolte, come se non fossero mai esistite e il ronzino, spaventato dall’accaduto, è oramai un concetto quasi indistinguibile lungo la linea dell’orizzonte: lo scorgo galoppare con un insospettabile furore, trascinando con sè il già malandato carretto.
Non scorgo più la bara. Rimango immobile, perplesso.
Abbasso gli occhi e la vedo a una ventina di metri da me.
Aperta.
Poco distante, il cadavere di un uomo giace bocconi lungo la strada: dalla posizione in cui mi trovo, posso distinguerne gli stivali dalla pelle marrone, i pantaloni di colore nero e un soprabito, liso e consumato, anch’esso nero.
Lentamente, inizio a muovere qualche passo nella direzione del morto: una strana forza mi sospinge verso di lui.
Voglio osservarlo.
Voglio capire.
Devo capire.
Le sue mani, bianche e immobili, giacciono lungo la sabbia, all’altezza della testa, rivolta verso sinistra.
La bocca dell’uomo è socchiusa, e con estremo spavento scorgo un cospicuo fiotto di sangue che fluisce da essa, lento e regolare.
Come se si stesse svuotando.
Come se non fosse morto, in verità.
La capigliatura, folta e corvina, ne copre parzialmente il volto anche se scorgo l’occhio sinistro, del tutto aperto, emanare una luce di brace in fondo a quel nero color tenebra.
Mi inginocchio e mi chino su di lui.
Voglio vederlo in faccia.
Voglio capire.
Devo capire.
Scosto quella selva di capelli e, mentre lo fisso in volto, il fiato mi si ghiaccia nei polmoni e dai miei occhi iniziano a sgorgare lacrime silenziose che non posso controllare.
Incredule.
Disperate.
Quell’uomo sono io.
Non ho tempo di riavermi dall’orrendo stupore perché, all’improvviso, una forza brutale mi abbatte sulla rena incendiata dal sole e un’intensa percezione di gelida impotenza comincia a impadronirsi di me.
Quelle mani, fredde e dure come il marmo, stanno stringendo la mia gola.
Il morto mi osserva dall’alto, con quei suoi occhi neri, vuoti e impenetrabili, mentre un ghigno selvaggio si dipinge sulla sua bocca sanguinolenta.
- È colpa tua, se sono morto così. Morto come un cane rabbioso, dimenticato da tutti! –
- …mm…mma chh..chhhi sssei? -, domando a stento.
- Lo sai chi sono, lo sai benissimo chi sono! Io sono la tua maledizione, la persona che hai sempre odiato di più! E adesso sono qui, per portarti via con me lungo il Regno delle Ombre, dove tutto è vuoto e freddo. È questo che volevi no? È questo che andavi cercando durante la tua vita, vero? Io sono qui per restituirti un po’ del tuo dolore!”.
Cerco di rispondere ma non ne ho più le forze.
Spalanco la bocca nel tentativo di inspirare un filo d’aria, ma le uniche sensazioni che avverto sono l’intenso bruciore dei miei polmoni e un gelo tagliente diffondersi dalle gambe lungo tutto il corpo, avvolgendolo nella nebbia.
Un pallore mortale invade il mio volto e spalanco gli occhi, nell’ultimo anelito di vita.
Guardo il cielo azzurro, totalmente sgombro di nubi.
Terso, perfetto, immortale.
E piango.
Dissolvenza.
Nero.
Silenzio………………………………………
- Avvocato, si sente bene? -
Una voce.
- Avvocato, mi scusi. Il giudice la sta chiamando –
Mi scuoto con un movimento innaturale del corpo, come colpito da un fulmine.
Intorno a me, i soliti muri del tribunale.
Le solite aule.
I soliti volti.
- Avvocato ma… si sente bene? –, domanda la voce.
- Sì… sì… sto benissimo, grazie –
- È molto pallido. È sicuro di stare bene? –
- Sì… davvero… sto bene –
- Beh, guardi che il giudice è da un po’ che la sta chiamando. Aula B –
- Grazie, vado subito –
Mi guardo intorno, stranito.
Sembra davvero tutto uguale, come sempre.
Regolare, monotono, privo di vita.
Tutto come al solito.
Emetto un profondo sospiro.
Cosa può essermi successo? Perché questo strano sogno? E come mai, d’improvviso, il mio cuore percepisce qualcosa, qualcosa di vivo?
Non lo so.
Non so più nulla.
Tutto mi sembra capovolto ma, al di là di questo senso di smarrimento, avverto una strana serenità.
Lentamente, mi avvio verso l’aula designata per l’udienza avanzando con passo leggero e tranquillo, così lontano dall’ambiente in cui mi trovo.
L’aula B è qui, di fronte a me.
Mi fermo ad osservare la porta chiusa, di colore rosso, anonima e insignificante come sempre.
Non mi interessa più nulla, di tutte queste cazzate.
Un lieve sorriso si dipinge sul mio volto: il giudice mi sta aspettando, non possiamo farlo attendere.
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