Recensione di Raffaella Foresti
“Questo è un momento di umanità e mi ricorda, tra l’altro, che la guerra è una forma di nostalgia”.
L’Angelo Esmeralda è la prima raccolta di racconti pubblicata da Don DeLillo (per l’Italia, Einaudi 2013, traduzione di Federica Aceto).
Le Nine Stories, scritte tra il 1979 e il 2011, sono ordinate secondo l’anno di composizione e sono suddivise in tre sezioni, ognuna delle quali preceduta da una illustrazione (un’immagine della terra vista dallo spazio, un affresco di arte classica, il dipinto di un cadavere spettrale).
Sembra di leggere una sintesi dell’opera dello scrittore ed al contempo un riepilogo di storia di storia degli ultimi quarant’anni, perché l’idea di DeLillo è come sempre quella di riflettere, nei suoi personaggi e nelle loro situazioni, qualcosa della nostra realtà.
I suoi protagonisti si trovano intrappolati in circostanze che non sono in grado di controllare e le situazioni narrate, anche quelle ordinarie, si spingono comunque all’estremo.
Nel racconto Creazione ci sono un uomo e una donna, al termine di una vacanza ai tropici, nell’angosciante attesa di un aereo che li riporti alla civiltà; in Momenti di umanità nella terza guerra mondiale (il mio preferito!) troviamo due astronauti dimenticati nello spazio a causa della guerra; ne L’acrobata d’avorio un’insegnante americana che vive in Grecia sopravvive al terremoto di Atene del 1981 e la sua paura non è che le cose non torneranno alla normalità, ma che lo faranno; nell’ultima storia, La Denutrita, il protagonista Leo Zhelezniak (“gli ci volle mezza vita per cominciare ad adattarsi al suo nome”) trascorre le sue giornate da un cinema all’altro (“i giorni erano tutti uguali, i film no”) secondo un’agenda scrupolosamente studiata. La moglie, da cui ha divorziato ma con cui ancora abita, si interroga su questa sua ossessione. “Era un asceta, diceva. Questa era una teoria. Trovava qualcosa di santo e di folle nella sua impresa, un elemento di abnegazione, un elemento di penitenza. Stare seduto al buio, onorare le immagini. Oppure era un uomo fuggito dal suo passato (…) Andava al cinema per vedere un film, gli chiedeva, o forse più strettamente, più essenzialmente, per andare al cinema e basta? Ci pensò su. Poteva starsene a casa e guardare la tv, un film dietro l’altro, via cavo, trecento canali, diceva lei, fino a notte fonda. Non doveva spostarsi da una sala all’altra, metropolitane, autobus, preoccupazioni, fretta, e sarebbe stato molto più comodo, avrebbe risparmiato un po’ di soldi, avrebbe mangiato pasti più decenti. Ci pensò su. Era ovvio, no?, che c’erano alternative più semplici. Qualsiasi alternativa era più semplice. Un lavoro era più semplice. Morire era più semplice”.
Vale la pena di rifletterci. Perché Leo Zhelezniak trascorre le sue giornate da un cinema all’altro?
Come ha scritto Martin Amis (The New Yorker), i grandi scrittori come Don DeLillo possono portarci dove vogliono; ma la metà delle volte ci portano dove non vogliamo andare.
Raffaella Foresti [email protected]