«Sbrigati».
È chiuso nel bagno. Attraverso il vetro zigrinato è un’ ombra piegata sul lavandino.
«Potevi aspettare domani per smacchiare quella camicia».
Non si ricorda. Prima la glicerina, poi tamponare con ammo- niaca e chiudere con una spruzzata d’alcol. Prima alcol da tamponare, poi glicerina, un po’ di candeggina a secco. Am- moniaca. La candeggina macchia. La candeggina si usa solo sul bianco.
«Allora?»
Enea cerca di ricordarsi con precisione. Prende la confezione di Neutro Roberts. Schiaccia il dosatore tre volte sul cotone,
lo spalma con indice e medio. Lascia sfuggire una cascata di ammoniaca sul grumo di schiuma. Vapori al borotalco e pi- scio si portano via un conato.
Alcol, il tocco finale e poi lascia in ammollo, non sa per quan- to: su yahoo answers non è specificato.
Entra un ragazzo, occhiali, capelli tirati indietro con il gel, jeans con risvolto, scarpa impunturata marrone Oro Saiwa, giaccone doppiopetto, cardigan dello stesso colore delle scarpe, button down e cravatta. Lo accompagna una ragazza con il viso pulito e le cosce grosse. Non più grosse delle sue. Tutto impettito si ferma nel salone.
Nove ore prima, Arnold Coffee, a due passi dalla Statale.
«Ci sediamo ai divanetti o qui?»
Le chiede sorridendo in cerca di complicità, lei ricambia in- differente. Appoggiano le giacche sulle sedie di un tavolino libero.
«Hai qualche preferenza?»
«No, non mangio, sono piena e non bevo né tè né caffè». «Dai mangia qualcosa, devo sdebitarmi per il pranzo».
Lei si allontana.
«Dov’è il bagno?» «È di là, vieni».
Le fa strada. Tornano dopo dieci minuti, lui porta un vassoio con un maxi bicchiere e due pancakes annacquati in salsa rossastra, lei non ha in mano nulla.
«Assaggia, prendine un po’».
«No, grazie. Che cos’è quella roba rossa?» «Boh».
Ha già iniziato a masticare un pezzo enorme che si è portato alla bocca con la forchetta di plastica, gli squilla il telefono.
«Sì, sono io».
Risponde e poi è solo silenzio per un arco temporale senza fine in cui lei riesce a mandare due sms. Gli fa segno di taglia- re.
«Ventun’anni».
Dice lui sovrastando il rumore di fondo delle studentesse e della cameriera che cambia il sacco della spazzatura sotto il bancone dello zucchero e dei condimenti.
«No, non ho la partita IVA».
La telefonata finisce così.
«Era Tre?»
Il tono di voce di lei non è per niente curioso.
«Sì, mi hanno interrotto il servizio per il passaggio a Vodafo- ne».
«Ah».
«Sicura che non ne vuoi?».
Continua a mangiare la frittella che nel frattempo si è gonfia- ta di brodaglia rossa.
«No, mi ricordano le colazioni a New York. Una volta ho visto uno che si mangiava le french fries al mattino».
«Adoro fare colazione con l’uovo fritto».
«Non avevo dubbi».
Fuori dalla vetrina continua a scendere la pioggia, passano alcuni studenti senza ombrello, uno si ferma, ha i jeans molli sotto il cavallo, stretti attorno alle gambe a parentesi. Si av- vicina al vetro talmente tanto che lo appanna per guardare dentro. Lancia un occhio ai divanetti, poi verso di loro, poi di nuovo verso i divanetti. Alza la mano, saluta. Nessuno gli risponde. Lui lo nota.
«Hai visto quello?»
Lei non risponde. Pensa che ha fatto un errore ad accettare quell’invito a pranzo. Pensa che non avrebbe dovuto mangia- re tutto quell’antipasto. Troppo pane, dopo i grissini triturati nell’attesa, prima delle mezze maniche alla norma. Poi il vino e la proposta indecente di un dolce a stelle e strisce. Cosa le era venuto in mente? Un appuntamento con quello senza nemmeno avere bisogno dei suoi appunti di storia del teatro.
«Cosa sta facendo?»
Il tizio sotto la pioggia si è messo a picchiare contro il ve- tro, una bionda sul divanetto abbassa la testa, si gira verso le due amiche che le dicono qualcosa che non si sente perché il rumore dei pugni sul vetro è troppo forte e lei arrossisce perché si accorge di Enea che la sta fissando, e con lui le altre persone che hanno smesso di fare quello che stavano facen- do nello stanzone che puzza di caffè riscaldato e salse am- mazzadiabetici. Adesso la gente guarda il matto bagnato. La bionda no, sente lo stomaco agitarsi e non è per colpa della ciambella. Enea nemmeno, guarda la bionda. Lei se ne accor- ge, non sta abbassando lo sguardo come fanno di solito tutti. Non lo fa cadere sulle cosce e il sedere. Lo nota subito quan-
do un ragazzo la fissa lì. Si accorge che poi qualcosa cambia. Lui non lo sta facendo, adesso si gira di nuovo e dice qualcosa alla ragazza che gli sta di fronte.
«Per fortuna ha smesso».
«Cosa?»
Aveva chiesto Didone in un blackout di pensieri. Enea non fa in tempo a rispondere, una spallata fradicia gli fa rovesciare il caffè sul cardigan. Passa attraverso la lana, bagna camicia, maglietta della salute e si ferma sulla pelle. Brucia. Fa il pos- sibile per soffrire in silenzio, riesce a non attirare l’attenzio- ne del ragazzo con il cavallo basso che adesso sta sgocciolan- do davanti alla bionda carina, con il viso da modella, uno di quelli destinato ad asciugarsi prima del tempo per le lampa- de, la troppa palestra e la preoccupazione di tenere nascosti gli amanti.
«Ti ho trovata!»
«Vattene».
«Pensavi di cavartela spegnendo il telefono a ogni mia chia- mata e segando gli squilli anonimi, invece eccomi qua». «Vattene ti ho detto».
Uno con un nome come il suo, a questo punto, avrebbe smes- so di ingozzarsi, si sarebbe alzato e avrebbe ammazzato il drago liberando la principessa. Ma oggi non c’è nessuna nuo- va Troia da fondare, Enea si asciuga la macchia con il tova- gliolo.
«Andiamo».
Le dice mentre i due davanti ai divanetti si servono insulti con contorno di indifferenza. Didone si alza, lo segue. Nella sala c’è silenzio quando prendono l’ombrello dal secchione
vicino all’uscita. Poi il suono di uno schiaffo. Enea le afferra la mano con la sinistra, la trascina fuori, velocemente. Con la destra apre l’ombrello.
Passano davanti alla vetrata segnata dal respiro del drago, lo vedono seduto, davanti al divanetto che si massaggia la fac- cia, la futura siliconata lo sta tempestando di parole. Voltano l’angolo, allungano il passo verso i portici cercando di non calpestare i laghi che prima di pranzo erano soltanto pozzanghere.
«Buone le frittelle, quella roba rossa doveva essere ciliegia».
Didone si lascia scappare un mugugno e si libera dalla presa molliccia di Enea.
«Peccato che non le hai assaggiate».
«Già».
«Sarà per la prossima volta».
«Ho lezione alle tre, devo sbrigarmi».
«Vero, abbiamo fatto tardi. Anch’io mi devo beccare in biblio- teca con Pallante. Deve restituirmi un libro».
«Bene».
«Studiamo insieme e per le sei facciamo un aperitivo al Tiffy». «Bene».
«Qui davanti, ci sei mai stata?»
«No».
«Ci raggiunge Camilla con sua sorella e il fidanzato». «Ottimo».
«Potresti raggiungerci finita lezione».
«Stasera proprio non posso. Devo studiare. Ho un esame set- timana prossima».
Mente. Una bugia scappata fuori assieme a un rigurgito di
melanzana.
Al riparo, Enea piega l’ombrello e le chiede se si vedranno ancora perché ci tiene, perché vorrebbe sapere di più di lei. Lei si guarda la punta degli stivali in gomma.
Stomaco, pancia e schiena si sono messi d’accordo per non darle tregua tutto il pomeriggio. È l’ultima volta che accetta un invito a pranzo, non solo da Enea. È sicura che papà avreb- be approvato una relazione con lui, avrebbe detto – Final- mente un bravo ragazzo, a modo, come si deve. Veste bene, si sa comportare, niente orecchini né tatuaggi– . Lo avrebbe fatto sedere al tavolo, vicino a lui. Entrambi avrebbero schi- vato discorsi di politica, come i calzini bianchi con i mocas- sini. Si sarebbero potuti concentrare sul tempo, il traffico e tutte quelle cazzate che si dicono per non discutere. Torna a guardarlo negli occhi. In mente rivede lo schiaffo della ragaz- za all’Arnold.
«Io vado».
Didone oltrepassa l’arco, si dirige verso l’ala di storia. Attra- versa il cortile sotto la pioggia, sparisce dalla vista di Enea.
«Ciao».
Prende il cellulare, deciso a mandarle un sms carico di emo- zioni e ringraziamenti. Messaggio non inviato. Striscia i piedi, apre di nuovo l’ombrello e torna verso il bar.
La bionda esce senza salutare le amiche, brucia ancora di vergogna. L’aveva trovata per caso e le aveva fatto la pater- nale davanti a mezzo mondo. Era il minimo non rispondergli al telefono, come si è permesso di rinfacciarglielo, dopo quel-
lo che ha combinato. Per un bel po’ non sarebbe più tornata da Arnold Coffee. Peccato, adora quel posto. È il suo antidoto alla nostalgia degli States. Anche se Starbucks è tutta un’al- tra cosa. In America ha preparato interi esami in caffetteria. Il bello è che puoi stare seduta quanto vuoi, leggere, chiac- chierare senza sentirti obbligato a liberare il posto dopo che hai finito di consumare. Nessuno passa a pulirti il tavolo e a chiederti se vuoi altro. Chi non ci è mai stato non può capire, quella è libertà. Che ne sa quell’imbecille che sta ancora cer- cando di capire che cosa ha fatto di sbagliato. È la bionda che ha fatto l’errore più grande della sua vita a tornare in Italia. L’avrebbero presa per la specialistica, nessun problema. Suo padre avrebbe pagato e lei sarebbe rimasta là per sempre. Invece si è fatta convincere dall’artista. Il grande composito- re che le leggeva testi delle sue canzoni via Skype e le giurava eterno amore. Peccato fossero dedicati a un’altra.
Ha avuto pure il coraggio di giustificarsi con il peggior luogo comune:
«Solo sesso, ti giuro. Stavo con lei ma pensavo a te, sempre».
Almeno il buon gusto di capire che si può lasciar perdere, prima di oltrepassare il limite della decenza. Avesse negato l’evidenza, le avrebbe fatto meno male. Una scopata e un co- rollario di menzogne, l’epilogo della loro storia.
Ripensare ai sensi di colpa che l’hanno tormentata nella ten- da del surfista di Santa Monica e sentirsi imbecille. Rimane la convinzione che in amore tutto è condiviso, a questa regola non sfugge il tradimento.
Ripensare alle palme che accarezzano i vetri delle aule, al cortile del campus, ai tramonti sulla spiaggia, alle bevute in slip e reggiseno nei dormitori, mandare al diavolo giornate in cui non si vede un disegno in quello che si sta facendo;
sembra che il destino abbia deciso di scioperare senza parte- cipare ad alcun corteo. In una giornata come quella, fradicia di rancore, non le sarebbe mai venuto in mente di scusarsi con quel poveraccio a cui il suo ex ha versato addosso il caffè. Tuttavia, in piedi davanti a lei, l’ha colpita la dignità con cui porta quella macchia, sempre più evidente. Enea la sta guar- dando, ha la stessa espressione di quando sbircia le pubbli- cità dei calendari, che addobbano le edicole a gennaio; lei la interpreta come un complimento, un’attenzione silenziosa e si avvicina. Enea la copre con il suo ombrello e le chiede se quello che tiene in mano si è rotto.
«Non ho fatto in tempo ad aprirlo». Enea sorride. Ebete.
«Sono mortificata per quello che è successo al bar. Turno è proprio uno stronzo».
«Non fa niente. E’ il tuo fidanzato? »
«Lo era».
«Mi spiace».
«A me proprio per nulla».
Si trova a parlare con lo sconosciuto dalla camicia macchiata. Turno odia le camicie. E’ un aspirante star, i dannati portano solo magliette. Un dannato che si fa prendere a schiaffi da una donna.
«Senti, le mie amiche mi hanno liquidata e io ho il cellulare scarico. Mi presteresti il tuo che devo fare una telefonata?» «Funziona solo per telefonate d’emergenza».
«Questa lo è».
«Sì, ma non ho linea, sto facendo il passaggio da Tre a Voda-
fone».
«Quelli di Tre sono dei bastardi, anch’io l’ho fatto e sono ri- masta un mese senza telefono».
«Ma dai? Anche tu hai scelto Più Facile Medium? »
«Scusa? »
«La tariffa».
«Scusa, ma sono in ritardo. Sta passando la cinquantaquatr- ro».
La camicia del destino non ha funzionato. Enea allontana i sogni dalla massa bionda che ondeggia verso la fermata dell’autobus e se ne va via.
I corridoi illuminati dai neon. Gli scaffali stracolmi, lo stes- so prodotto, replicato in mille confezioni di marche e colori differenti. La glicerina. Frutta e verdura, banco frigo, repar- to pescheria, pollame, manzo, vitello, maiale. E poi tè, caffè, biscotti, detersivi. Enea passa in rassegna roba per igieniz- zare casa e intrugli per pulire vestiti. Niente smacchiatori, non servono a nulla. Si è fidato dell’esperienza virtuale, in mancanza di quella in carne ed ossa. Macchia fresca o datata. La sua ha un grado di croccantezza che impone la terapia d’urto: ammoniaca, alcool, glicerina.
Tre ore prima, Esselunga, a due passi da casa di Enea.
Rigorosamente in quest’ordine, oppure ci si può concedere il lusso di invertire l’ordine dei fattori?
Per le macchie vale la proprietà commutativa?
Ammoniaca semplice o profumata?
Lavanda, sapone di marsiglia o fiori di campo?
Alcol etilico, denaturato o puro? Una questione di intuito. Ma la glicerina?
Con mezzo litro di latte, la crema di yogurt, i cordon-bleu Arena e due ingredienti nel cestino, chiede a un commesso
dove la può trovare. Il commesso appoggia il lettore di codi- ci a barre sulla pigna di pelati. Dal camice spunta una carpa giapponese che sguazza sul suo avambraccio. Enea non ca- pisce perché la gente si fa tatuare. Al commesso non gliene importa nulla di quello che pensa.
«Mi scusi dove posso trovare la glicerina?»
Ripete Enea. Il commesso pensa alla stitichezza di sua ma- dre, ai ceri rossi con la foto di papa Giovanni o di Padre Pio – in realtà San Pio ma a lui non interessano i gossip vaticani.
«Non ce l’abbiamo, ma laggiù c’è il reparto igiene personale».
La spada di un samurai indica la terza corsia in fondo a de- stra. L’angolo delle occasioni. Detergenti intimi a metà prez- zo.
Alla seconda corsia a sinistra il cuore gli trapana lo sterno e la gola gli si gonfia come quando ha mangiato nocciole trita- te nascoste nel pesto. Intolleranze. Si nasconde dietro a pal- let e scatole di biscotti. La cerca con lo sguardo in preda allo shock anafilattico, punta gli occhi su un paio di scarpe ferme davanti allo scaffale benessere. Aspetta che il cuore rallenti prima di spingersi più in alto delle caviglie. Da dietro sembra lei. La vede infilare una scatola nel carrello. Tisana drenante. Per un momento gli sembra stia guardando dalla sua parte. Il tempo che permette a Didone di leggere “abbracci panna e cioccolato tre per due”, volta la schiena e si allontana verso la cassa.
Enea si accontenta di un surrogato: sapone liquido con for- mula arricchita alla glicerina. Ne servirà di più, questione di percentuali.
Intanto Didone svuota il carrello sul nastro, la mora tutta
rimmel e carte fedeltà fa scorrere velocemente le confezioni sul nastro.
«Centotrentasei e settantotto».
Didone infila l’ultimo sacchetto nel carrello e allunga la Visa alla cassiera.
«Carta o Bancomat?» Non sa leggere? Pensa lei.
«Carta».
«Grazie arrivederci».
Il carrello si assesta sul tappeto d’argento che la porta alla Smart; da un sacchetto escono ananas e misticanza. Didone travasa la spesa nel bagagliaio, recupera l’euro infilando la catenella. Sale sulla macchina e torna a casa.
Sua mamma è dove l’ha lasciata, seduta in poltrona avvolta dall’audio della televisione, più basso del suo respiro. Non guarda lo schermo, fissa la foto nella cornice appoggiata so- pra il telaio. Un uomo bello come sua figlia la sta fissando. Mostra i denti e una coppa. Sullo sfondo la sua macchina co- perta di sponsor e fango.
Due ore prima, via Orti 9, Terzo piano citofono 11.
«Mamma è pronto».
La poltrona si svuota, la televisione rimane accesa. Si siedo- no a tavola, una di fronte all’altra. Didone con la tazza fuman-
te tisana, la madre con pasta scotta e insalata.
«Stasera non mangi?» «Non mi va».
A papà sarebbe piaciuto Enea.
Natan Modin