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Racconto breve di Giorgio Michelangelo Fabbrucci

de bello plastico

 

  • Dovremmo avere più attenzione. Tutto qui.

  • Scusa, cosa vorresti fare? Non mi sembra di essere distratta.

  • Per carità! Non voglio dire controllo. Piuttosto, non so… piuttosto indirizzo. Dobbiamo indirizzare, ecco.

Il tè caldo è appoggiato sul tavolo. Un quotidiano stropicciato. Sullo sfondo un televisore acceso. Lo spot dello yogurt accompagnato da una melodia allegra.

§§§

Raggiunsero il fondo di una valle arida, al cui centro, protetti da una collina di sabbia, si fermarono. Al di là di quell’altura, il villaggio. Lo avevano scorto poche ore prima, da lontano, attraverso le lenti sporche e appannate e graffiate dei binocoli. Videro con gli occhi ciò che i droni avevano constatato in silenzio dal cielo. Quattro baracche. Bianche, dalle linee sbilenche, dai tetti flosci di paglia, sterco e lamiera. Alcuni barili di latta annerita stavano ammucchiati davanti alle porte, a mo’ di trincea. Le finestre sprangate con assi consunte, di legno pallido.

Pochi gesti, organizzati, precisi. Le emozioni strizzate, come fazzoletti fradici, alle necessità della missione.

Si guardano i soldati. In silenzio respirano piano.

  • Dove sono gli altri, sergente?

  • Stanno arrivando, come da ordini, comandante.

  • Ottimo.

§§§

  • Hai fatto ancora multe oggi?

  • Ne ho fatte molte. A volte ci penso e mi sembra assurdo. Voglio dire, non lo sanno? Non lo hanno capito? Eppure si ostinano. Girano come dannate. Doppie frecce che sembrano luci di natale. Rimangono ad aspettare che un’altra mamma carichi il bimbo e si spostano. Per carità, queste sono ancora le più disciplinate. Quelle che odio di più sono quelle dei rally. Io le chiamo “Quelle dei Rally”. Tipo Parigi Dakar, per intenderci. Lasciano il loro suv sbilenco, con due ruote sul marciapiede e due ruote a terra. Cosa pensano, che ci troviamo in Libia? Che non provocano ingombro al normale fluire del traffico?

  • A volte parli come un manuale.

  • Sono un vigile urbano e me ne vanto! Lo so che in fondo avresti preferito sentir dire da tuo marito “sono un soldato”, “sono un tenente di marina”, bla bla bla.

  • E smettila! A me dei ruoli e delle cariche non è mai interessato nulla.

  • A me sì. O meglio, amo la serietà. E se un vigile serio fa il suo mestiere, vale tanto quanto un ufficiale di marina. Anzi, di più! E lo sai perché? Lo sai perché vale di più…

  • perché tutti i giorni risolve tanti piccoli problemi, mentre gli ufficiali di marina si arrampicano sugli alberi di navi che non servono più.

  • Esattamente. Non solo.

  • Vuoi dell’altro caffè? Oggi ho preso veluto.

  • Ma non dovrebbe velluto, con due elle?

  • No, è con una elle. Si dice così in inglese, veluto.

§§§

  • Comandante, la squadra d’assalto mi ha appena informato di aver raggiunto la posizione. Si trova ad est del villaggio, dietro il basso crinale filmato durante le ricognizioni aeree. I soldati in posizione, pronti alla manovra. Attendono nuovi ordini.

  • Ottimo sergente. Dica loro di aspettare il mio via.

  • Signor sì, signore.

Prese un mitragliatore leggero, fuori produzione. Lo portava con se, per quelle che definiva manovre di scouting individuali. Uomo preciso, amava constatare la situazione di persona, spesso infrangendo il regolamento, seppur con molta cautela.

Il ventre appoggiato sulla sabbia, lasciava scie come di serpente. Con lentezza, trascinandosi sui gomiti e sugli avambracci, si spingeva fino al limitare dell’altura.

Si tolse l’elmetto. Si sporcò i radi capelli con abbondanti manciate di sabbia. Il trucco al volto mimetizzava il resto. “Sono come sabbia, una volpe del deserto”, diceva a se stesso, in un mantra che faceva eco all’istinto della sopravvivenza.

Osservò le baracche. Giunse pronta un’auto, come se stesse attendendo per entrare in scena. La carrozzeria ammaccata, striata di ruggine, ingiallita quasi a fondersi con tutto il colore del mondo che aveva attorno. La marmitta borbottante di gasolio, poi l’arresto improvviso del ruggito metallico e due stivali a calpestare la terra, seguiti da piedini scalzi di bambino.

il bambino non ci voleva”, pensò fra se e lentamente si ritrasse.

§§§

  • Arturino, la mamma sta preparando il caffè. Tu che fai?

La taverna: lo spazio perlinato, dal legnoso sapore di montagna, archivio di ingiallite letture e di domeniche speziate d’arrosto. Cartoni inumiditi, dalle scritte pennarello, come vasi di pandora di “peciotti”, sbiaditi nel tempo.

  • Ho trovato questi papà! E ci sto giocando. Vedi? Quel cartone lì è la montagna. Poi questi qui sono i buoni e quelli là i cattivi. Però loro non hanno ancora attaccato, vedi?

Il bambino si alza e con l’equilibrio di un capriolo appena nato, indica gli spazi bellici disegnati dalla sua fantasia. Il tozzo dito paffutello, descrive ogni cosa e traccia nell’aria i primi profili di quell’istinto ancestrale chiamato guerra.

  • Vedi Arturino. Questi sono i vecchi di giochi di papà. Ma adesso questi giochi non vanno più bene, perché i soldatini non usano più il fucile. E poi i buoni e i cattivi… perché devono essere così cattivi quei soldatini?

  • Ma papà…

  • Certo Arturino, ma il papà adesso ti insegna un gioco più bello!

  • Facciamo le multe?

  • No, no… non vi è stata alcuna infrazione! Facciamo una cosa ancora più bella!

  • Cioè?

§§§

Discendendo piano dalla collina, cercando per quanto possibile di non sollevare sabbia, il comandante raggiunge la sua truppa. Si dirige verso il sergente. Poggia una mano distratta sulla sua spalla: un gesto fuori luogo, segno di un’amicizia pluriennale.

  • Sergente, confermi ai soldati l’inizio delle attività. Ho notato dei movimenti nelle baracche.

  • Comandante. La informo che altre truppe sono state avvistate giusto pochi attimi fa, dal comando centrale. Non hanno saputo dirci molto. Sembrano truppe poco organizzate, ma incedono a passo spedito, verso la nostra posizione.

  • Ha già avvisato la squadra d’assalto?

  • Abbiamo tentato signore, ma la trasmissione sembra interrotta.

  • Dica ai soldati di prepararsi al combattimento. Tre uomini rimarranno con lei sergente. Gli altri con me. Ci muoveremo verso sud, come se si trattasse di un’imboscata. Lei continui a tentare di trasmettere gli ordini alla squadra d’assalto. Contemporaneamente chiami il quartier generale e chieda un supporto aereo… due elicotteri saranno più che sufficienti.

  • Signor Sì signore.

Non era la prima volta che una minaccia improvvisa stravolgeva i piani. Iraq, Afghanistan, Libia. Nomi che riverberavano ancora il tuono di un’esplosione, il sapore acre della carne bruciata, gli arti sparsi, nel rubino spento del sangue nella rena.

Nulla valevano i sorrisi bianchi dei giovani bimbi scalzi. Il fascino, commisto alla malcelata commiserazione, di fronte agli sciami di giovani urlanti, con i volti di uomini dal capo avvolto, stampato su cartelloni bucati da pallottole.

Il nome di ogni nazione era l’abito a lutto indossato dai suoi ricordi.

Riprese la marcia in formazione. Le schiene ricurve, docili al passo, accompagnavano le braccia tese. Il peso dei fucili d’assalto.

Giunsero presto al termine della valle. Come mille cavallette, il ronzio battente di due elicotteri alleati, li oltrepassò dal cielo. Nondimeno, raggiunta una posizione di favore allo sguardo, lo spettacolo che gli si mostrò aveva il profilo di un apocalittico prodigio.

§§§

  • Papà, ma anche gli orsetti gommosi?

  • Certo, perché no, scusami! Tutti vanno in missione di pace ad aiutare la gente meno fortunata.

  • Ma anche gli orsetti gommosi? Gli orsetti gommosi non sono da mangiare?

  • Certo. Ma in questo momento anche gli orsetti gommosi vogliono dare una mano. A proposito, hai tagliato i fucili?

  • Me ne mancano ancora un po’!

  • Allora io adesso lego ai nostri missionari di pace, gli zaini con gli aiuti.

Piccole bustine di Karkadé vennero trasformate in pochi attimi in sacchi di viveri. La cordicella per l’infusione venne assestata al petto polimerico dei soldatini. Le punte dei fucili furono tagliate e buttate nel sacco giallo della raccolta differenziata, a far compagnia alle bottiglie di Ferrarelle e di Vernel.

Orsetti gommosi, soldatini indiani senza machete, omini lego e playmobil, figurine del presepe unitamente ad un T-rex, abbellito con un fiocchetto bianco da pacco regalo, vennero uniti alla gioiosa macchina da guerra, divenendo una multiforme parata arcobaleno.

§§§

  • Comandante. E’ un esercitazione? E’ una realtà virtuale?

  • Siamo solo vittime di un’imboscata batteriologica del nemico. Allucinogeni soldati, solo tossine allucinogene! Non abbiate paura, cercate di rimanere saldi. Quello che state vedendo non è reale. Ripeto. Non è reale. Fuoco di copertura! Ora!

I fucili d’assalto iniziarono a tuonare. Dalle bocche di acciaio rovente la luce esplodeva. Un ritmo lampeggiante. La prima fila di Nativi Americani fu subito falcidiata. Alcuni di loro rimasero per pochi istanti in piedi, a trattenere le budella, mentre gli orsetti gommosi li superavano festanti, cantando un jingle monotono.

I soldati ricaricarono pronti i fucili. “Fuoco!”.

Le pallottole attraversarono i corpi di gelatina senza arrecare danno. Il loro sguardo fluo, privo di pupille, si mostrava sereno, olimpico.

Giunsero in pochi minuti agli uomini, i quali, disperati ed increduli, passarono all’arma bianca i jelly bears senza grande successo. Il comandante, mantenendo lucidità tattica, incitò la sua truppa: “colpite alle gambe questi mostri!”. Così, tra ampi gesti marziali ed urla di guerra, agli orsetti furono amputate le membra… rimasero a terra canticchiando.

Il peggio sembrava passato, quando, a capo della sacra famiglia, di quattro pecorelle e di un mugnaio, gli omini lego e playmobil, grazie ad una manovra avvolgente, riuscirono a scansarsi dal fuoco nemico, per giungere, con velocità extra terrena, nei pressi della squadra d’assalto.

Le truppe speciali, alla vista del nemico alieno, reagirono con il fuoco. Ciò nonostante una parte di essi, conquistati dal panico, corsero giù dal crinale, nei pressi delle baracche. Dopo alcuni passi le assi che parevano sprangare le finestre, caddero a terra in un soffio, lasciando al loro posto le bocche di fuoco di alcuni kalashnikov. “Un’imboscata!”, gridarono i soldati disperati, per poi cadere trivellati, pochi attimi dopo.

Un bambino, finita la sparatoria, corse fuori dalla baracca. Inutili le urla della madre dal capo velato. Il ragazzino era troppo veloce e scappò via, saltellando sulla vetta di sabbia.

Giunto in alto lo spavento gli avvolse le membra. Un gigantesco Tirannosaurus Rex, al cui collo era stretto un fiocco bianco, stava pasteggiando con alcuni soldati. Tutto intorno membra lacerate, pezzi di gelatina colorata e testoline gialle lego, componevano l’affresco di una battaglia da poco terminata.

A quella vista gridò “Guerra”… sicuro che al suo ritorno, nessuno gli avrebbe creduto. 

Giorgio Michelangelo Fabbrucci
[email protected]

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