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Racconto Breve di Ilaria Bonfanti

In quella città le persone erano felici, felici davvero.

Come diamine si fa ad essere felici davvero? Ho sempre creduto che superati i dodici anni la cosa fosse impossibile, e intendo quell’impossibile marchiato a fuoco nella realtà, radicato in essa, non di quelli detti così per dire tra una chiacchiera da bar e l’altra.

Continuo a pensarlo nonostante quell’atipica metropoli, giorno dopo giorno, abbia messo a dura prova le mie convinzioni, persino quelle più profonde.

Non esistevano preoccupazioni ma giorni spensierati da trascorrere senza ansia; i sorrisi erano sinceri, poco studiati e privi di opportunismo, letizie che andavano a sostituire malumori e recriminazioni. La noia si curava con pomeriggi di ozio della consistenza del mare, al profumo alcolico dell’aperitivo estivo al tramonto.

Orde di adolescenti coi capelli bianchi e carichi di figli si scoprivano intenti a contare i minuti di un venerdì già pregno della fragranza speziata del weekend che stava per cominciare. Le bollette, i dissapori lavorativi, le scadenze superate oramai da mesi, le rate di pagamenti interminabili; niente sembrava annuvolare un cielo di progetti in divenire.

L’ombra della depressione era cinese, mutava al cambiamento di un pollice e volava via come le colombe nelle mani di due novelli sposi.

Lentamente, tutto questo mi ammazzerà” mi ripetevo.

I giorni parevano lunghi sabati del villaggio, senza domeniche pronte a soffiare via quella brezza d’aria positiva; le tempeste movimentavano gli animi ma non distruggevano i sogni e le speranze.

Le interminabili camminate sul lungomare non mi lasciavano angosce, le immagini di sofferenza mi tornavano alla mente senza distruggermi, dissolvendosi lentamente come il più bello dei tramonti.

Tutto questo non mi risparmierà.

Ma, quello che più di tutto mi distruggerà, è la luce: qui c’è sempre luce.

Una luce che faceva male agli occhi per quanto era intensa, che rivelava ogni ruga e sfumatura, che impediva sotterfugi e lacrime nascoste.

Questa è la luce che mi ucciderà.

Mi lasciava senza scampo, senza possibilità d’uscita, senza malinconia.

Come si può vivere senza il buio dello sconforto, senza le parole che nascono dalle sere più nere? Quelle sere in cui fuori è mattino ma il grigio del mondo ti entra nelle ossa non consentendoti di fare nulla, se non di scrivere.

Io, io ne avevo bisogno.

Dal primo giorno avevo intuito che ci fosse qualcosa di strano in quella città, ma gli impegni e l’assestamento iniziale, con le conseguenti miriadi di cose da fare e tutto il tran tran burocratico, mi avevano impedito di cogliere quella fastidiosa felicità eterna.

Nessuno sembrava tremare al pensiero di vivere. Nessuno pareva sentire quel nodo alla gola che scende fino alla stomaco e va a descrivere quelle giornate cariche di inquietudine. Nessuno e, con il passare del tempo, cominciai a non sentirlo nemmeno io.

La felicità non era più una semplice chimera, un mulino a vento col quale inveire a causa della sua illusoria consistenza. Si trattava piuttosto di una presenza quotidiana, con la quale condividere colazioni, momenti di operosità e attimi di noia vagabonda.

Tentavo di attingere a ricordi di dolore, a immagini di sudicia desolazione; eppure, niente era come prima, nessuna lacrima che scavava dentro l’anima ma solo rugiada che bagnava le gote, come una sorta di liberazione.

Eccola, la serenità.

Ogni tanto mi voltavo di scatto per controllare se fosse ancora lì, seduta sul divano del soggiorno, sorridente. Lei, che per anni si era divertita a comparire per poi andare via, lasciandomi in apnea per giorni, mesi, anni.

Ritornava giusto il tempo di ricordare quanto sarebbe stato bello vivere con lei accanto ogni singolo momento.

Smisi di cercare parole per placare quell’ansia del vivere che caratterizzava le mie giornate.

Cessai di dare sfogo alle mie emozioni inespresse.

Smisi di scrivere.

Nella città della vita, io, smisi di vivere.

Toccava prendere l’auto e guidare fino alla contea di chissà dove, oltre il confine, cercando qualche squallida pensione dove avvilirmi senza vergogna.

E persino in quella angosciosa ricerca di inquietudine gli stralci di quella città senza angustia si trattenevano sottopelle, la felicità mi si era attaccata come la peggiore delle sanguisughe e non riuscivo a fuggirla nemmeno macinando asfalto; il mio sguardo fissava il contachilometri sperando che quel continuum di strade la portasse lontana da me.

Come era stato possibile tutto questo?

Per anni l’avevo inseguita, tentando di afferrarla e affliggendomi poi per la sua inconsistenza e ora era qui, profondamente attaccata al mio corpo e alla mia anima e l’unica cosa che desideravo era liberarmene.

Fu dopo ore di rettilinei e paesaggi tutti uguali che svoltai a sinistra e lo trovai: il Motel della disperazione. Wanhopen Motel.

Esattamente come me lo ero immaginato nella mia testa, quello strambo edificio si stagliava nel deserto dei turbamenti con il pacato distacco che sa avere solo chi, da anni, non fa altro che lavorare con le emozioni più difficili.

Ad attendermi al bancone della hall c’era una donna sulla sessantina, una donna con la quale la vita si era accanita parecchio ma così dignitosa da non provare alcun piacere nel sottolinearlo. Una di quelle persone con le quali potresti passare ore di silenzio, senza l’imbarazzo delle parole non dette, mentre l’auto corre veloce.

Le rughe del suo sorriso rendevano immediato il gesto spesso goffo di riservare una stanza; era come se lei avesse avuto da sempre la consapevolezza che sarei arrivato.

Sapevo che non mi avrebbe mai chiesto la data della partenza.

Detestavo le domande, odiavo dover trovare le risposte che gli altri volevano sentirsi dire perché così funzionava nel mio mondo; le parole subivano ogni giorno abusi su abusi e nessuno placava quell’ansia da sproloquio, nessuno sapeva scegliere un nobile silenzio.

Ma quella donna pareva vivere fuori dal tempo, lontana da questo desiderio comune di avere un’opinione su ogni benedetto argomento.

Io e gli altri avventori consumavamo caffè e lenzuola senza sprecare troppi convenevoli, senza chiederci quei perché scomodi ai quali avremmo risposto malamente, camuffandoci dietro facili malumori.

Eravamo tutti lì: scrittori, veri o presunti, alla ricerca dello spleen come fosse un sacro graal, compositori di mestizia, uomini e donne affamati di malinconia.

C’era chi si voleva godere la depressione cronica di un amore finito, quella sensazione terribile che non ti permette di alzarti dal letto; chi si abbandonava allo sconforto di un lutto o di una perdita e chi, semplicemente, mal sopportava quel respiro regolare privo di accelerazione.

Nella casa dell’infelicità le giornate passavano come ai vecchi tempi, nella angosciosa convinzione che non valesse la pena vivere. Il mare era lontano e lì dentro consumavamo ore e settimane in nome dell’arte o, semplicemente, facendoci portatori insani della vita alla quale solo così sentivamo di appartenere.

Eravamo così disabituati alla felicità che ritrovarcene immersi ci aveva destabilizzato, costringendoci a scappare in un luogo a noi conosciuto. In quelle stanze in cui il silenzio si accordava col dolore, provenivano melodie che sapevano di casa, che facevano rivivere i ricordi dando loro lo spessore meritato.

Il tormento aveva ripreso a camminare per i pavimenti della mia anima, il suo passo pesante e riconoscibile attraversava le immagini del passato impedendomi di vedere luminosità nei giorni futuri.

Eccola, la mia vita.

Ilaria Bonfanti
[email protected]