Recensione di Raffaella Foresti
La bellezza grottesca ed inquietante di questo romanzo vi viene annunciata sin dal suo titolo, ispirato al monologo finale del Macbeth: “La vita è solo un’ombra che cammina: un povero attore che incede e si agita sul palcoscenico, e poi non lo si sente più: è il racconto di un idiota, pieno di urlo e di furore, che non significa nulla”.
Soggetto del romanzo è il disfacimento dei Compson, aristocratica famiglia del Vecchio Sud caduta in disgrazia dopo la guerra civile, ma il tema profondo esplorato da Faulkner è il caleidoscopio della coscienza umana.
La tragedia si svela in tre atti – ognuno narrato da un diverso personaggio, ognuno un esperimento di scrittura tanto sorprendente e sublime da lasciare storditi – ed una sorta di prologo finale, cui Faulkner ha successivamente aggiunto un’appendice.
Si comincia con il Sette aprile 1928. Il narratore è Benjamin, uno dei figli dei Compson. Benjy ha trentatre anni ma è un minorato mentale. Il suo linguaggio è fatto di odori, di pianto e di frasi incomprensibili. É senza dubbio la sezione del romanzo più difficile da leggere (e la troviamo proprio all’inizio…) perchè non ha cronologia. Benjy non ha il concetto del tempo e salta da un evento all’altro confondendosi anche di trent’anni.
Il secondo atto, Due giugno 1910, è narrato da Quentin il giorno del suo suicidio, e rappresenta probabilmente il più perfetto flusso di coscienza che sia mai stato scritto, con lunghi e fluenti pensieri a simulare il ritmo frenetico delle sue riflessioni. Quentin è talmente intenso che sul fiume Charles (Massachusetts), dove il personaggio si suicida nel romanzo, esiste davvero una targa per commemorare la sua vita e la sua morte: “QUENTIN COMPSON: Drowned in the odour of the honeysuckle. 1891-1910”.
Con il terzo atto si torna all’anno iniziale, nel giorno antecedente rispetto a quello “narrato” da Benjy. Sei aprile 1928. Qui parla la coscienza di Jason, il fratello cattivo dei Compson, per così dire. “Puttana una volta puttana per sempre, dico io”. Così iniziano i suoi pensieri e così si concluderanno, trovando spazio, nel mezzo, una serie di insulti e considerazioni odiose verso tutti: i negri, gli ebrei, gli antenati, la sorella Caddy, lo sfortunato fratello Quentin, la madre malata e persino Dilsey, la domestica nera che tiene unita la famiglia con la sola forza del suo carattere. Jason alla fine risulta quasi simpatico, forse perchè è tanto rabbioso quanto ridicolo. Il suo destino, tuttavia, è in qualche modo meno disperato rispetto a quello degli altri fratelli, essenzialmente perchè Jason riesce sempre a trovare qualcuno da incolpare come efficace antidoto alla solitudine e alla disperazione.
L’ultima parte, Otto aprile 1928, è raccontata in terza persona da un narratore onnisciente ed è fortemente incentrata sulla figura di Dilsey, la domestica nera dei Compson. Lavora e sostiene la famiglia, ricevendone in cambio indifferenza e disprezzo. Ma non le importa, perchè la sua semplicità, la fede nella sua chiesa, e i suoi valori umani la salvano. Mentre i Compson sono tutti rivolti al passato e ripiegati su loro stessi, Dilsey è aperta e guarda al futuro. Non a caso, secondo me, questa parte è l’unica che viene narrata in terza persona e procede in maniera cronologicamente lineare.
Alla fine del romanzo segue un’appendice dell’autore, scritta successivamente alla sua prima pubblicazione. Si presenta come la storia completa della discendenza Compson e contiene fatti anche successivi al 1929, anno di uscita del romanzo.
Qui si trova anche qualche riferimento alla famiglia dei domestici neri, un’ulteriore prova della perfezione della scrittura di Faulkner: mentre le voci dedicate ai Compson sono lunghe e dettagliate, le voci della servitù sono semplici e succinte.
Nell’appendice viene svelato anche il destino di Caddy, la sorella di Benjy, Quentin e Jason, che rappresenta il vero centro mancante del romanzo.
Non vi ho parlato di lei per lasciarvi il gusto di scoprirla, di desiderarla e di provare disperatamente a raggiungerla. Perchè è questo che accade al lettore con Caddy, esattamente ai personaggi del romanzo. Tutti la desiderano, e tutti la perdono. Benjy perde l’odore rassicurante dalla sua protezione materna, Quentin l’oggetto di un’intensa passione amorosa, Jason i suoi soldi.
Caddy è così davvero il cuore del romanzo, che Faulkner decide di nasconderla e proteggerla per svelarla lentamente, attraverso i sentimenti che gli altri personaggi provano per lei.
Pensate che la signora Compson, la madre, non vuole nemmeno che la si nomini in casa propria!
E ora chiedetevi: come si fa a raccontare così bene un personaggio la cui azione principale, in tutto il romanzo, è scomparire?
La risposta è che bisogna essere Faulkner, il più grande scrittore della modernità americana.
Solo per i lettori con il culto dell’opera d’arte.
Raffaella Foresti [email protected]