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Santuario – William Faulkner

Recensione di Giorgio Michelangelo Fabbrucci

 

Di solito leggo tutto ciò che anticipa la narrazione. Le pagine bianche, la prefazione del vecchio saggio di turno, l’introduzione dell’autore e la sua dedica, spesso anticipatamente nota.

Con “Santuario” di Faulkner mi è capitata tra le mani una vecchia copia di una raccolta di premi nobel, donata da mio nonno a mia madre. Un testo con copertina cartonata in velluto rosso e il nome “Faulkner” e la data “1949” marchiata in oro.

L’introduzione mi ha ucciso. Un lungo monologo sulla sopravvalutazione dell’autore rispetto agli Anderson ed ai Fitzgerald. Una strana alchimia di scherno e rispetto, che punta il dito sull’irriverenza dell’autore che ,a detta del critico, costruisce, in ogni occasione pubblica, il suo personaggio.

Se vi annoio con queste note una ragione c’é. Infatti il testo, pubblicato nel 1931, fu un grande successo. Permise, almeno così si dice, al Faulkner di ristrutturare casa (una palazzina di legno a due piani in stile coloniale) e di iniziare a condurre una vita decente. Nondimeno, come testimonia Fernanda Pivano “Amici e parenti lessero il libro di nascosto, avvolgendolo in carte pesanti mentre lo portavano dal negozio di MacReed a casa, e subito andando a protestare dall’autore. Era fin troppo evidente, oltre tutto, che l’autore mostrava di conoscere un po’ troppo da vicino gli ambienti che in quegli Anni Rosa sembravano malfamati: i contrabbandieri di alcool, i bordelli, le maîtresses”.

Un bohemién in salsa Mississippi? Non proprio. Già nell’introduzione, l’ironia e la franchezza dell’autore travolgono il lettore, prima di batterlo a calci e sputi di tabacco masticato; impacchetta il capolavoro: “Questo libro è stato scritto tre anni fa. Per me esso rappresenta un’idea meschina, perché fu concepito deliberatamente per fare quattrini”. Ci dice il Faulkner di averlo scritto tra le 18:00 e le 6:00, mentre lavorava alla centrale di erogazione di energia, come porta carbone, nel turno di notte… e in un attimo siamo già nel “Santuario”. Immersi in quella povertà assoluta che vede ville coloniali trasformate in stamberghe, infestate da un’umanità corrotta e corruttibile, come pidocchi i capelli, tra sciami di insetti.

Maulraux (ci racconta Augias in un suo commento su Repubblica) disse che con “Santuario” la tragedia greca tornava a vivere nella letteratura americana. Altri lo hanno definito “il nonno del pulp“. Io, più semplicemente, considero questo testo una testimonianza sorprendente di talento.

Gli anni in cui si ambienta il romanzo sono quelli della crisi e del proibizionismo del secolo scorso. Una vecchia casa coloniale, sperduta nelle campagne nei pressi di Jackson, diviene ricovero di una banda di disperati, nutriti da una ex prostituta (il cui figlio malato sonnecchia in un cassone), capeggiati da un’improbabile leader, battezzato con geniale ilarità “Popeye” (Braccio di Ferro). La stamberga diviene meta, ed incipit, dell’intreccio tra vite che annaspano nel fango: sia di pizzo, che di stracci vestite.

Una giovane donna, Temple, innamorata di un giovane alcolista, sedicente “gentiluomo di Virginia”, viene trascinata in questi luoghi dalla dipendenza da whiskey del suo amante. La disperazione la coglie: facile profetizzare tragici epiloghi. Viene violentata, c’è un assassinio, ed un arresto sbagliato. Poi la trasformazione da diciassettenne borghese a mignotta, la caduta nel male e la disperata necessità, conservata nel profondo nell’animo, di legare con altre anime… che alla fine evaporano, nelle vampe di un destino avverso.

Possiamo immaginare cosa provarono i lettori dell’epoca: la vergogna di realtà conosciute e mai stigmatizzate con così grande efficacia. Il libro venne letto, sbranato; criticato il suo autore, come spesso accade a chi stracci i pesanti arazzi dell’ipocrisia.

Non ho studiato letteratura, eppure non mi stupisco del successo che negli anni, il lessico e la narrativa dell’autore hanno raccolto negli atenei. C’è un ‘efficace insistenza ritmata nell’utilizzo degli aggettivi; vivide ed ossessive le descrizioni dei particolari che, come in un mosaico imperfetto, raccolgono la realtà e la ricompongo in letteratura.

“Popeye uscì dalla porta. Accese una sigaretta. Tommy gli squadrò la faccia illuminarglisi tra le mani, le gote che si risucchiavano; seguì con lo sguardo la piccola meteora che faceva il fiammifero lanciato tra le erbacce. Anche lui, pensò Tommy. Sono in due a insidiarla, e intanto il suo corpo dava un guizzo, lentamente. Povera piccola”.

Leggere McCarthy, prima di Faulkner, è come leggere Ovidio prima di Omero. Si comprende, senza aver letto Bloom, da dove venga questa poetica della disperazione e del fato, dove gli uomini sono bestie, fragili gabbie, nelle quali, nonostante tutto, sopravvive ancora un’anima.

Giorgio Michelangelo Fabbrucci
[email protected] 

 

Author: Giorgio Michelangelo

Giorgio Michelangelo Fabbrucci (Treviglio, 1980). Professionista del marketing e della comunicazione dal 2005. Resosi conto dell'epoca misera e balorda in cui vive, non riconoscendosi simile ai suoi simili, ha fondato gli Alieni Metropolitani... e ha iniziato a scrivere.

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4 Comments

  1. Complimenti, Giorgio, per questa recensione molto suggestiva, stimolante e “sentita”! Sei riuscito a trasmettere gli odori, i sapori e le atmosfere dell’opera!

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  2. Coinvolgente rappresentazione di un mucchio di umanità calata nella contrapposizione tra sogno americano e l’incubo della grande depressione

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  3. Er forvirret unge dame…En sød mand – kys kærlighed ??Er det noget der er gÃ¥et min næse forbi???Men er enormt glad pÃ¥ dine vegne…:-)

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  4. ¡Cuánta actividad!No me pierdo por nada del mundo ese Muere, Numancia, muere, que ya conozco el talento de Carmen Mayordomo.. y el de Carlos Be, jajaj..¡Mucha suerte en todos los proyectos!

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