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Questo Giardino, che è una foresta

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Racconto di Alfredo Perna

Tempo fa conoscevo un ragazzo. Si chiamava Robert. Castano, alto e abbastanza affascinante. Ci incontrammo, per caso, ad una festa di compleanno di un’amica comune. Ricordo di averlo notato solo quando uscii in giardino a fumare. Era poco più di un’ombra; se ne stava in disparte, sotto il gazebo, seduto su una sedia a dondolo, lontano dai festeggiamenti.

È una noia mortale la festa, non trovi?”, sentii sentenziare ad un certo punto una voce nella semioscurità.

Ridussi gli occhi a due fessure per poter scorgere nell’ombra e chiesi: “Ci conosciamo?”

Smise di dondolarsi. Per un attimo venne fuori dall’oscurità e si mostrò. Aveva due rami al posto delle mani.

Rimasi allibita. La sigaretta mi cascò dalle dita senza neanche accorgermene. Era la prima volta che vedevo una cosa del genere. Ci presentammo, poi lui aggiunse: “Non ti stringo la mano perché potresti farmi causa.”

Anche a costo di apparire priva di tatto, scoppiai in una risata. Ma era evidente che ero sconvolta.

Senza chiedergli alcuna spiegazione, allungò le mani in modo che potessi osservarle meglio, alla debole luce che filtrava da una finestra alle nostre spalle. “Mi sono ammalato circa un anno fa, ma i dottori non riescono ancora a trovarne la causa”, mi disse. E mi disse anche che da meno di un anno era stato assunto all’università. Lo pagavano per sottoporsi a certe cure. Prima faceva il magazziniere, ma poi per via di quelle due cose…

Mi spiazzò. Parlare con tanta leggerezza di una malattia del genere non era da tutti. Probabilmente fu quest’aspetto a farmi innamorare di lui.

Iniziammo a frequentarci e qualche mese dopo ci fidanzammo. Non ci furono né anelli, né cerimonie particolari; prendemmo soltanto in affitto una villetta abbastanza decentrata, con un piccolo giardino sul retro e ci giurammo di vivere insieme per il resto della nostra vita. Non so se lo amavo. Forse sì, forse no; comunque gli volevo molto bene. Questo sì. Mi rammentai di ciò che diceva qualche volta mia madre, a proposito del suo matrimonio: “L’amore si costruisce insieme, giorno dopo giorno”; così feci tesoro del consiglio e cominciai a condividere la mia vita insieme a questo ragazzo.

La mattina, dopo la colazione, ci salutavamo sotto l’arco dell’entrata. Io montavo di servizio al supermercato e lui andava all’università. Ci vedevamo direttamente la sera, quando parlavamo delle nostre due lunghe giornate. La sua giornata, devo ammetterlo, era molto più interessante della mia. Mi raccontava sempre di quest’enorme aula, dove c’era un piccolo palco su cui lui saliva e lo sgabello su cui sedeva. Doveva sentirsi come una star o qualcosa del genere sotto gli occhi di decine di studenti che prendevano appunti, mentre l’emerito Professor Jackman discuteva del suo singolare caso.

Ogni sera, prima di andare a letto, gli potavo i rami. Temevo che a letto avrebbe potuto farmi parecchio male, infilzandomi. Nella giuntura tra il polso ed il legno partiva il ramo più grosso, spesso quanto una mezza sterlina. Non so perché, ma tendevo ad associarlo al suo pollice. In genere cominciavo a tagliare dalle punte. Prendevo le cesoie per siepi e sfrondavo i rami e i germogli. Raccoglievo tutto in una piccola cesta di vimini. Ero diventata molto brava (sul web avevo letto parecchi articoli e visto parecchi video di tecniche di potatura) ed ero in grado di dare alle “mani” la forma che più mi riusciva. Un lavoraccio. Ma mi piaceva molto. È difficile spiegarvi l’immensa soddisfazione di quando Robert andava in bagno e dopo aver sollevato le braccia per rimirarsi allo specchio, mi diceva: “Un lavoro impeccabile! Come sempre, mia cara.”

Poi, un giorno, una nuova escrescenza fece la sua comparsa sotto forma di corteccia all’altezza di una coscia. Eravamo in marzo. Il legno aveva iniziato a crescere sul suo corpo con una certa regolarità. E ogni giorno c’era una trasformazione. Una piccola isola in espansione all’altezza del collo, un bulbo che gli premeva sotto pelle oppure nuovi rami che gli crescevano al posto delle dita dei piedi.

Dall’espressione del suo viso non mi sembrava preoccupato. Robert non era mai angosciato, né nervoso. Era, piuttosto, rassegnato. Come se nel corso del tempo l’accettare avesse finito per prendere il posto del credere e del conoscere.

Eppure io continuavo a tormentarlo. Ogni benedetto giorno volevo sapere da lui cosa dicesse al riguardo il Professor Jackman.

Eravamo in cucina, un pomeriggio, a bere del tè e tentava da diversi minuti di raschiarsi via del legno da uno zigomo, con la punta di un ramo; dopo aver fatto spallucce, in tono contrariato disse: “Me l’hai domandato infinite volte ed io finisco ogni volta per ripetertelo di nuovo.”

E si vede che io lo voglio essere ripetuto di nuovo. Allora?”

Sbuffò sonoramente, e per l’ennesima volta raccontò: “Il Professore sostiene che le tumefazioni sono causate da un virus: il Papilloma. Fino a quando non si scoprirà il modo di combatterlo non potrò guarire.”

E quindi?” domandai. Ma in realtà in quella domanda c’era un’altra domanda. Avrei voluto sapere piuttosto se il suo male si sarebbe aggravato ancora di più; ma non domandai per delicatezza.

E quindi?”, chiese lui retoricamente. A forza di pigiarla sulla faccia, Robert finì per spezzare la punta del suo dito senza riuscire a scalfire minimamente la corteccia. “E quindi si sa solo che soffro di questo raro difetto genetico. Il virus colpisce le cellule della mia pelle e ordina la crescita improvvisa di questo legno. Ti sei fidanzata con un albero, Jennifer cara”, disse sfoggiando un sorriso beffardo.

Sì, ma non è possibile!”, feci in tono seccato. “Da quand’è che ti sottopongono ai loro esperimenti? Un anno e mezzo? E sono sempre allo stesso punto? Perché non trovano questa cura, questo qualcosa che ferma il tuo male?”

Non è così facile, mia cara. Le scoperte scientifiche richiedono tempo.”

Non lo so. Secondo me, dovresti sentire un’opinione alternativa.”

Robert allungò le braccia dinnanzi a sé, mettendo bene in mostra le sue anormalità. “Qualcun altro, chi? Il Professor Jackman è un luminare. Senza di lui, nessuno si sarebbe occupato dei miei problemi.” Girò le mani sotto l’incandescenza pigra della lampadina, e aggiunse: “La sua equipe sta facendo tutto il possibile per scoprire una cura. Analizzeranno ancora il mio sangue, tasteranno la mia pelle qua e là. Ma per guarire ci vuole tempo, lo sai.”

Spesso trascorrevo interi fine settimana a seppellire nei vasi di terracotta i suoi germogli. Speravo che un giorno potessero attecchire al terreno e crescere in un magnifico albero domestico. Ma mi chiedevo anche a cosa mi sarebbe servito mai un altro albero, quando potevo già coricarmici insieme ogni notte, così come farci colazione insieme ogni mattino.

Una domenica pomeriggio lo sorpresi in salotto a leggere, seduto in poltrona, alla fioca luce che filtrava dai vetri della finestra, un gigantesco volume illustrato. “Alberi. Tutte le specie e le varietà più diffuse”, recitava a caratteri cubitali il titolo. Poggiai il cesto di vimini per terra e rimasi a fissarlo per un po’. Si era conficcato i lembi della copertina cartonata tra le intersezioni di alcuni rami più grossi ed era talmente immerso nel libro che nemmeno se ne era accorto di essere spiato.

Negli ultimi tempi portava i capelli lunghi. Se si lasciava cascare dinnanzi al volto in modo da nascondere le escrescenze sulle gote e sul lato sinistro della mascella. Le cose non miglioravano, a dispetto delle cure. Anzi. Diverse altre protuberanze gli erano cresciute in diverse aree del corpo.

Il mio compagno, da roseo diventava sempre più marrone.

Feci un paio di colpi di tosse e quando finalmente sollevò gli occhi mi sforzai di sorridergli in maniera gentile. “Che leggi?”, chiesi.

Robert abbassò piano il volume per non rischiare di spezzare i rami, lo poggiò con delicatezza sulle sue cosce ed evitando la domanda disse: “Mi aiuti a voltare pagina? È più di mezz’ora che vado avanti a leggere sempre la stessa scheda.”

Mi avvicinai a lui e gli presi il libro. Sfogliai diverse pagine, le feci scorrere sulla punta del pollice velocemente come quando si mischia un mazzo di carte, poi lo richiusi con uno scatto. “Perché leggi questo libro, tesoro?”

Non si sa mai. Potrebbe ritornarmi utile”, disse lui protendendomi le mani. Assunse un’espressione vacua, con due occhi simili a feritoie. Sembrava un bambino a cui gli era stato sottratto il suo giocattolo preferito.

Guarirai, caro. Vedrai. Ma non ti serve questo libro.”

Aprì il solito sorriso amaro. Con uno scatto del collo si scostò leggermente i capelli dal volto e mi fissò con quelle due fessure. “Anche uno stupido lo capirebbe”, disse. “Anche uno stupido capirebbe che sono senza speranze.”

Due cose erano accadute, nel frattempo. Per prima cosa avevo diviso il letto matrimoniale, per timore che Robert rigirandosi la notte avrebbe finito prima o poi con l’infilzarmi. La seconda si manifestò un venerdì mattina; dalla finestra aperta in cucina, entrò, con un secco frullio d’ali, un passerotto. L’uccello fece un breve giro di ricognizione tra le pentole, sul tavolo, diede diversi colpetti alle porte dei mobili e prima che potessi scacciarlo via, si andò a rifugiare tra le mani di Robert. Si aggrappò con le zampette ai rami, e si accoccolò placidamente. “Bello, bello” disse il mio uomo con un filo di voce, osservando estasiato l’uccello. “Mi vuoi bene? Allora resta qui con me.”

Divennero subito compagni inseparabili.

Alla fine del mese di aprile la situazione era peggiorata ulteriormente. Le spalle e le sue braccia si erano, in poco tempo, ricoperte di una spessa corteccia grigio bruna. Assomigliava adesso al dorso della Cosa dei Magnifici 4. Avrebbe potuto benissimo fare la controfigura in un film di Supereroi. Poi, mia sorella Agnes mi diede il numero di un esperto, una sua conoscenza con la quale era spesso in contatto per il suo giardino. Un’agronoma, la dottoressa Shelley Ramirez. Diceva che era brava. La chiamai. Non sono tanto sicura che, all’altro capo del telefono, avesse capito la vera natura del problema.

Non abitava lontano da casa nostra. Così ci andammo a piedi. Tutta la gente che incrociammo per strada, non si limitò a guardarlo. Tutti quanti dovevano per forza piantare i piedi per terra e girare la testa per osservare basiti quell’uomo ricoperto di legno, e l’uccellino che cinguettava felice e contento nel nido fabbricato tra alcuni rami. Un gruppetto di ragazzini, in una piazzola, se lo mise a fissare a bocca aperta. Uno, il più piccolo, si avvicinò mentre passavamo accanto a loro e chiese: “Come fa l’albero a camminare?”

C’ha le gambe, non vedi?”, gli risposi io mordacemente.

Nel giardino della dottoressa Ramirez c’erano decine di alberi dal fusto sottile, un patio attorniato da vari cespugli fioriti e un piccolo viale che fungeva da roseto. Ignoravo i nomi della maggior parte delle cose che la natura aveva fatto crescere lì attorno.

È la prima volta che visito una persona”, disse lei, quando inforcò gli occhiali, avvicinando la testa ai rami di Robert. Aveva capelli brizzolati e rughe attorno a piccoli occhi azzurri. Ci aveva accolti in casa sua senza dimostrare stupore o imbarazzo. “Ha legno sparso sull’intera superficie del corpo”, commentò e aggiunse: “un caso davvero interessante.”

Mm-m”, mi limitai a fare. “Mm-m”, mentre osservavo Robert, con aria rassegnata, abbandonarsi allo sguardo perscrutativo del medico. Era deprimente vederlo così rassegnato.

È della specie del pesco”, spiegò la donna dopo aver tastato qua e là il legno. “In alcuni punti si stanno sviluppando le tignole. Delle farfalle nocive che erodono dapprima i boccioli primaverili e poi si insediano nel frutto in formazione. Se Robert fosse un albero, gli consiglierei qualche prodotto chimico. Ma non è un albero.”

Guarirà, dottoressa?”, chiesi nel mentre la donna si alzava per avvicinarsi ad un vaso di terracotta. La osservai chinarsi e raccogliere una paletta di ferro.

Si riavvicinò, sfoggiò un broncio e sollevò le spalle come per dire: Non si sa, e senza dire più nulla incominciò a scrostare con la paletta alcune escrescenze. Passò una buona mezz’ora a scrostare. Staccava le cortecce, le osservava per un po’ alla luce del sole e le lasciava cadere per terra. Di tanto in tanto chiedeva a Robert se sentisse dolore, fastidio. Lui scuoteva ogni volta la testa. Niente dolore, né fastidio.

Alla fine il medico si sfilò gli occhiali con un gesto secco. Guardò la mia faccia, con le mascelle talmente serrate che sembravano non riuscire più a contenere le due file di denti; poi, guardò la faccia impassibile del mio compagno. Si grattò la tempia e deformò la faccia per un tempo infinito e concluse dicendo: “Sono solo un agronomo, signori. L’unico consiglio che posso darvi è armarvi di pazienza, di una paletta come questa e togliere la corteccia ogni qualvolta cresce a contatto della pelle.”

Per una decina di giorni sembrò che tutto andasse per il meglio. La mattina, sedevamo in giardino, sfoltivo le sue mani e, con la paletta da giardino regalataci dalla dottoressa Ramirez, staccavo qui e là le cortecce dalla pelle di Robert. Quando era di nuovo libera, la pelle assumeva un colorito rosso, come quando ci si espone troppo al sole e si rischia una scottatura. “Ti brucia?”, gli domandavo. Oppure: “Senti dolore se ti tocco?”, ma lui, niente. Scuoteva la testa e mi rassicurava che era tutto apposto. Gli massaggiavo su la pasta ad alta protezione per la pelle dei bambini, ma il rossore non sembrava andar via con troppa facilità.

Un giorno, probabilmente galvanizzato dalle novità degli ultimi tempi, lui telefonò all’università e disse ad un’assistente del Professor Jackman che si prendeva un anno sabbatico. Aveva bisogno di riposo, spiegò.

Quasi tutti i santi pomeriggi, poi, Robert si sedeva in poltrona, immerso nella sua lettura preferita, accanto alla finestra, mentre il piccolo passero cantava allegramente nel nido; di tanto in tanto urlava perché gli andassi a girare le pagine. “Non ho capito perché continui a leggere questo libro”, gli dicevo. “Ci sono tante altre letture più costruttive: Dostojevski, Hemingway, Oscar Wilde, per esempio.”

È un libro molto interessante”, mi diceva lui. “Chissà se un giorno non finirà per tornarmi utile, chissà.”

A dire il vero, in quel periodo, non volli dare molto peso alla cosa. L’importante era che la “cura” della Ramirez continuasse per il meglio. E, per un po’, fu così, andò tutto per il meglio.

Gli scrostai quasi tutta la pelle, e da grigio marrone divenne di nuovo tutto rosea.

Ma le cose belle sono fatte per durare poco.

Una sera, mentre eravamo seduti a tavola a cenare, il passero, approfittando della finestra aperta, aprì le ali, spiccò il volo e si diresse di nuovo da dove era venuto. Non fece mai più ritorno.

Questa cosa gettò Robert nello sconforto totale.

Poi, successe dell’altro. Dire che il legno apparve ancora una volta sul suo corpo era usare un eufemismo. Autentici bulbi, grossi quanto palle da biliardo, iniziarono a spingergli da sotto la pelle per piazzarsi, come occupanti abusivi, in ogni zona del corpo. Faccia, mani, cosce, schiena, piedi, polpacci, ginocchia. Dite una parte, sicuramente era stata occupata.

Nell’arco di pochissimi giorni tutto il corpo di Robert si riempì di legno. Uno spesso strato di legno marrone, duro come la roccia.

Tentai in ogni modo di liberarlo. Sono il tipo di persona non abituata ad arrendersi troppo facilmente. Tentai dapprima con la piccola pala di ferro, usai addirittura uno scalpello, ma niente. Robert fu sommerso dal legno. Sparì letteralmente. I suoi occhi, le sue braccia, i capelli, i piedi. Tutto, del mio uomo, fu inghiottito dal legno. Era come un incubo vomitato dalla mente dell’Arcimboldo.

Inginocchiata al fianco di quel tronco, piansi così tanto come mai avevo pianto in tutta la mia vita.

Lo trascinai in giardino. Per tenerlo in vita, bagnai con l’acqua le sue radici. Quindi scavai una buca di circa un metro e mezzo. Ce lo infilai dentro, in posizione eretta, e la coprii di nuovo col terreno. Impiegai una settimana, a fare tutto. Un’intera, lunga settimana di fatica estenuante. Volevo che le radici attecchissero e che Robert vivesse ancora, da albero. Il suo bel corpo, alto e massiccio, era tutto di legno. Per un’oscura ragione cercai di rammentare quale fossero state le sue ultime parole, poco prima di sparire, di essere risucchiato da quella furia marrone. Ma non riuscii a ricordarmele. E più passavano i giorni, più l’impressione che dimenticassi tutto il resto di lui, il viso, il colore dei suoi capelli o degli occhi, diventava più netta.

Ogni mattina, dopo colazione, esco in giardino e con la cesoia gli poto i rami. Adesso non ho più la preoccupazione di dover dare alle sue mani nessuna forma. Al posto delle sue braccia sono cresciute decine di fronde; ricche di germogli, piccoli fiori rosa nel tardo inverno che diventano pesche, grosse a volte come pugni di un uomo, in estate. Allora, le raccolgo. E quando le lavo, le asciugo e le taglio ho come l’impressione di stare ancora con Robert. Qualche volta mi succede di sognarlo, alto, robusto e con mani vere al posto dei due rami. Allora, lo chiamo: “Robert, Robert”, ed io sto proprio lì, allungo le mani e sto quasi per toccarlo, quando all’improvviso apro gli occhi e mi rendo conto che è solo un sogno.

Robert non c’è più.

È sempre in giardino, immobile come un albero.

Alfredo Perna
[email protected]

Author: Alieni Metropolitani

Gli Alieni Metropolitani non cercano soluzioni. A volte ne trovano… é irrilevante. Appartengono alla Società e con sguardo consapevole ne colgono l’inconsistenza. Non sono accomunati da ideologia, religione o stile di vita ma da una medesima percezione del mondo. Accettano i riti della vita, riuscendone a provare imbarazzo. Scrivere! Una reazione creativa alla sterile inconsistenza del mondo.

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