Racconto proposto da Mattia Moriano
Quando Mario era tornato, con la barba bianca e le vesti logore per quel lontano viaggio in giro per il mondo, non era più il Mario che conoscevo un tempo. Portava negli occhi, che ricordavo così limpidi e chiari, una torbida luce, straniera e selvatica, come le mille luci dei mille esotici soli che doveva aver visto tramontare. Dei suoi viaggi non parlava. Sedeva lunghe ore all’ombra del fico nella piazza, a fumare quei puzzolenti sigari, ricordo di chissà quale avventura. Non faceva altro, fumava e taceva. Più d’una volta gli avevo domandato come fosse il mondo, cosa avesse visto, e se è vero, come dice mio padre, che l’unico posto in cui valga la pena di vivere è la propria casa; ma lui si limitava a rispondere con degli stiracchiati si o no, oppure, più spesso, mi diceva innervosito – lasciami in pace, se hai tanta voglia di sapere com’è il mondo, non ti resta che andarlo a vedere! – e se ne andava ingobbito, lasciandomi solo in mezzo al puzzo del sigaro, con l’amaro in bocca per tanta scontrosità. Tutti in paese si domandavano cosa avesse incrociato nei suoi viaggi, per divenire tanto solitario e scontroso. “Un travolgente amore, finito nel sangue d’una fanciulla, suicida sopra le rive sabbiose del mar rosso.” sospirava mia sorella alla finestra, stringendo un voluminoso romanzo d’amore tra le braccia; “ una notte, tra le urla ubriache d’una rissa, avrà ammazzato per errore un uomo che gli era amico” dicevano gli amici del bar, rossi in viso per il troppo vino bevuto; “ha fatto festa finché ha avuto i soldi da mangiarsi, poi, persi quelli, persa l’allegria.” ghignava mio padre, sputacchiando di qua e di là per la tovaglia, pezzettini di spaghetti dalla bocca troppo piena. Insomma, tutti in paese, ognuno a misura e a bisogno della propria fantasia, s’erano fatti la loro personalissima e originale idea sul misterioso cambiamento di Mario. La madre, una delle ultime volte che ero passato a far visita, prima che l’ostinato mutismo di quell’uomo cancellasse in me ogni ricordo d’amicizia, m’aveva detto piangendo, che il suo figliolo glielo avevano ammazzato le polverose strade del mondo – quell’estraneo, dalla barba bianca e dagli occhi tristi, non è altro che la scorza essiccata del mio amato bambino – così m’aveva detto, prima di chiudere, piano, la porta di casa. Anch’io stentavo a riconoscere in quel silenzioso e solitario fumatore di sigari, lo stesso compagno con il quale, solo pochi anni prima, calcavo i banconi delle osterie, assetato di vino e di risate. Ricordavo quel giovane allegro dai neri capelli, che quella notte di marzo, ubriaco nei campi chiari di luna, mi si era fatto vicino, e ridendo m’aveva detto – là, dietro la collina, superato il fiume e poi il mare, là, in quello sterminato ignoto chiamato mondo, la vita m’attende. – Ecco, ricordavo benissimo quel ragazzino sognatore, con cui avevo diviso il pane sotto lo stesso tetto e la stessa donna sotto il medesimo cielo, ma sicuramente non riconoscevo quell’inquietante uomo silenzioso, che sedeva ogni giorno sotto il fico, accarezzandosi la barba bianca, e fissando con opachi occhi il nulla, mentre gli amici di un tempo passavano per la via, chiamandolo in vano. Non riuscivo a capacitarmi di quel cambiamento così profondo, mi sembrava impossibile che un uomo potesse mutare così radicalmente. Delle vecchie abitudini, non gli era rimasta che l’osteria. Solitamente si presentava verso sera, entrava col suo passo strascicante e salutava tutti con un cenno stanco del capo, poi ordinava una birra, si sedeva a un tavolino vuoto e beveva. Beveva e beveva tutta la notte e se ne andava solo quando il barista chiudeva la serranda del locale. Nessuno ricorda averlo visto ubriaco e nessuno ricorda averlo sentito dire più di quattro parole una dietro l’altra. Anche li, nel mezzo delle risate e della musica, non parlava, taceva assorto in qualche impenetrabile pensiero, s’accendeva un sigaro e guardava dentro il suo bicchiere. Più d’una volta intravidi, tra le spesse ragnatele di fumo azzurrognolo, che sputava fuori dalla bocca in continuazione, lacrime scendere da quegli occhi che si erano fatti così torbidi ed estranei. Ultimamente, quando il barista chiudeva l’osteria, aveva preso l’abitudine di prendere una bottiglia di vino, e di andarsi a sedere sotto il fico nella piazza, e lì, dopo aver acceso uno dei suoi sigari, intratteneva se stesso con lunghi soliloqui in lingue straniere. No, quell’uomo non era proprio più il Mario che conoscevo. Piano piano, le parole che sua madre m’aveva sussurrato quel giorno sulla porta, mi si fecero sempre più presenti nella mente e alla fine, quando quella mattina lo trovarono impiccato ad un ramo del fico, non piansi. Per me, Mario era ormai morto da tanto tempo, da quel pomeriggio, che con lo zaino in spalla e gli occhi chiari, era salito ridendo sopra il treno, alla volta del mondo, e dei suoi mille tramonti.
Mattia Moriano