Racconto proposto da Francesca Caldiani
Bianca scese dal treno per prima, lasciando Stella alle sue spalle. Stella era nata per quello, per coprirle le spalle, e non c’era un solo aspetto del loro stare insieme che non fosse del tutto avvilupato dentro quello schema. Bianca davanti e Stella dietro, a guardare che nessuno le facesse qualche brutto scherzo.
Bianca vide Roma per prima, scendendo quei tre gradini, e la vide per prima perché nella vita c’è sempre una cosa che è davanti agli occhi di tutti, ma che è fatta solo per te. E Roma era fatta per Bianca, e Bianca per Roma, e in quella cosa Stella non c’entrava nulla. Le avrebbe coperto le spalle, sempre, anche in quella grande città di vicoli antichi, di cose vecchie e di gente nuova. Ma non sarebbe mai stata parte dello schema Bianca-Roma.
Succedeva, a volte. Bianca aveva questa assurda incomprensibile mania di farsi prendere dalle cose nuove e di consumarle fino allo sfinimento prima di abbandonarle a se stesse come il più vecchio e noioso dei giocattoli.
Era una ragazza così infantile a volte, pensava Stella, e anche riguardo a quella faccenda di Roma arrivò alla stessa conclusione di sempre. Era l’amore del momento e sarebbe passato alla fine della settimana, sul treno di ritorno.
Non c’erano nemmeno topi, a dirla tutta. Qualche insetto sbucò fuori il secondo o il terzo giorno da una crepa nella cabina doccia (l’Antro, la chiamava Bianca con quel suo velato snobismo) e c’era quella faccenda del letto-bara, un matrimoniale su cui stava stesa una coperta color rosso-cassa-da-morto, e a volerla raccontare tutta se ti sdraiavi dentro e incrociavi le mani sul petto e chiudevi gli occhi un po’ d’impressione la facevi.
Fu in effetti il passatempo di Bianca nei primi tre giorni, fare quello scherzo idiota quando Stella usciva dal bagno-buco. E Stella si poteva sentirla gridare sino all’ultimo piano, cosa abbastanza normale quando le pareti sono fatte di cartongesso.
Quindi, tirando le somme, a parte quei due dettagli e il fatto che tutto il complesso assomigliasse ad una squallida casa d’appuntamento di fine ottocento, l’hotel piacque da morire a entrambe. È buffo, e forse non lo capisci più quando avanzano gli anni, ma se hai diciotto anni e l’alternativa è non vivere certe esperienze… beh! Quello era il palazzo reale.
E fuori, la città.
Bianca non faceva altro che guardarsi intorno con la bocca aperta.
Passarono i primi tre giorni a farsi venire le vesciche ai piedi e perdersi pressochè dovunque. La teoria di Stella era che della cartina se ne poteva fare tranquillamente a meno perché lei aveva il senso dell’orientamento.
Chiunque altro avrebbe perso la pazienza, soprattutto dopo quattro ore di passeggiata dal Pincio al Parco di Villa Borghese, senza mai arrivare a quella benedetta Villa neanche fosse una casetta dei Puffi in mezzo alla Foresta Amazzonica, ma Bianca non se la prendeva. Il loro modo di vivere le cose era sempre stato quello, da che si erano incontrate anni prima su un campetto di ghiaia e avevano iniziato la loro amicizia camminando.
Camminavano.
Dio solo sa quanto riuscissero a camminare quelle due, con la bocca sempre a sputar fuori parole e commenti su tutto e tu le potevi vedere in mezzo a Piazza del Popolo, super affollata in una giornata d’agosto, con mille persone attorno e loro, imperterrite, andare avanti a guardare a camminare a parlare, fuori da tutto quello, in una bolla che non scoppiava mai. E sempre con Stella un pezzettino indietro e Bianca che di tanto in tanto le diceva di tenere il suo passo, ma poi in fondo le faceva piacere quella presenza alle spalle.
La faceva sentire più grande.
Roma fu questo per i primi tre giorni. I monumenti e le Gallerie e le strade e loro che non si stancavano di conoscere, perché quando hai diciotto anni se non hai voglia di conoscere stai già rovinandoti il resto della vita.
Bianca guardava adorante ogni cosa e Stella non se ne preoccupò, perché nel suo cuore sapeva che di lì a quattro giorni avrebbero lasciato il loro amato Pincio e il loro hotel bordello e sarebbero tornate a casa, nei quartieri sicuri di una città conosciuta. Nel suo cuore Stella sapeva che nel giro di poco tempo Bianca sarebbe stata presa da un’altra mania e allora chissà dove l’avrebbe trascinata questa volta, in quale posto del mondo, in quale altra avventura riservata a loro due sole.
Ma quello che uno impara una volta divenuto vecchio è che a diciotto anni si ha la certezza di sapere un sacco di cose, perché sei troppo giovane e forte per sbagliarti, sei troppo acuto e intelligente per non capire. Questa presunzione finisce sempre con il metterti nei guai, perché poi la vita si diverte a cambiare in un secondo convinzioni e abitudini.
E se non sei pronto, allora sei fregato.
Non c’erano segni che questo dovesse accadere proprio la quarta sera della loro settimana romana ma se uno sta ad aspettare i segni finisce che si perde a interpretarli e intanto la vita gli scivola via.
Camminavano e parlavano, niente di nuovo. Avevano mangiato di nuovo bucatini in una trattoria di Via del Governo Vecchio (quel giorno bucatini a pranzo e a cena, fortuna che l’hotel bordello forniva almeno la colazione, rigorosamente a base di torta di carota: la stessa per tutta la settimana, si sospettò ma nessuno lo disse) e avevano digerito quelle porzioni abnormi sui gradini di Piazza Navona. Stella aveva snocciolato tutte le nozioni che sapeva sulle Tre fontane, perché a lei l’arte piaceva e poi non si può essere così ignoranti, perdio mentre Bianca guardava distrattamente due giocolieri a cui il numero con le palline proprio non riusciva e allora, incautamente, Stella si alzò e disse quella cosa, quella cosa che poi si sarebbe rimangiata per una vita intera, quella cosa che non poteva sembrare minimamente pericolosa perché perdio, è una scemenza come un’altra.
Si va a Trastevere, a piedi, da qui. Forza, camminare.
Questo disse e non si fermò a pensare alle cose ovvie. Tipo che da Piazza Navona a Trastevere c’erano tre chilometri di distanza e siccome di prendere un taxi non se ne parlava ci sarebbero arrivate a notte fonda, e poi hai voglia a tornare indietro. O tipo che non aveva proprio alcun desiderio di buttarsi nel caos di Trastevere di notte, dove si accendeva la vita dei giovani (e Stella odiava tutto questo perché a Stella importava solo che ci fosse Bianca al mondo, tanto le bastava).
Ci avrebbe pensato a lungo poi, negli anni, al perché le fosse venuta in mente quell’idea cretina di attraversare mezza Roma a piedi e siccome non credeva nel destino concluse che era stato il Tevere a fregarla.
Quella sua passione di camminare con Bianca sulle sponde di un fiume, qualunque fiume fosse.
Questo avrebbe concluso poi, ma allora non si fermò a pensare: Bianca le fu dietro senza fiatare, inconsapevole di tutto quello che la stava aspettando, e così camminarono, con la città illuminata che faceva da contorno a quegli ultimi istanti di schema a due, Bianca e Stella, Stella e Bianca, e la loro bolla.
Trastevere ha qualcosa di unico ed è il fatto che la puoi sentire già ad un chilometro di distanza. Pulsa di vita, di voci confuse, di accenti di ogni tipo, è una cosa viva che si muove intorno al Tevere e tu non puoi che assecondarla. Gli odori di trattorie buttate in mezzo alla strada, i vicoli stretti dove la gente non si limita a camminare, no, segue la scia di quello davanti e così via lungo una catena invisibile che si spezza davvero solo a tarda notte.
Bianca amava la gente. Stella non lo capiva e anzi lo disapprovava, ma a lei piaceva stare là in mezzo, le piacevano gli sguardi e i sorrisi. Le piaceva tutto e se c’era un posto di Roma che sapeva avrebbe portato con sé per sempre, beh era proprio quell’angolino di vicoli stretti e panni stesi e osterie piene zeppe di persone.
E quando andò a sbattere contro di lui-perché tu stai sempre sulle nuvole perdio- beh quando andò letteralmente a sbatterci contro, allora capì in un secondo che a volte l’ironia del destino ti porta ad annullare ogni cosa proprio là dove c’è più movimento.
Era bello.
Giovane e bello, e in effetti si potrebbe pensare che l’amore sia questo, almeno all’inizio. Che sia un fatto chimico, due occhi neri che ti fanno perdere la razionalità e ti portano in un posto migliore, anche solo per un momento. Questa è una cosa che non si spiega nemmeno con gli anni, quindi è inutile sprecare le giornate per cercare di afferrarne i contorni. È molto più facile prendere atto dei fatti in sè, e il fatto fu che Bianca si innamorò di Alberto al primo istante e per lui fu lo stesso perché, Stella lo sapeva bene, come si può vivere senza quegli occhi azzurri e quella pelle chiara e quelle manine minuscole da bambina?
E il fatto fu anche che Stella lo comprese fin dall’inizio che aveva perso Bianca, e che in fondo in tutto quel loro camminare non era mai stata veramente sua.
E allora, provando odio per se stessa e con quel coraggio che hanno solo gli amanti, fece quello che andava fatto.
Scomparve.
E fu amore.
Di quello vero, quello che ti entra sotto la pelle, quello che non può finire mai (e non importa se poi la vita lo fa finire, in quel momento sembra impossibile perché il tempo stesso diventa un concetto relativo). E piansero e risero perdendo la cognizione di quello che avevano intorno, e le notti passavano ed erano solo Bianca ed Alberto, cittadini di Roma, cittadini del mondo, isola felice in una città antica che li guardava sorridendo, e Dio quanto l’amava Bianca quella città, perché era la sua, perché i suoi occhi neri ne erano pieni, perché ogni cosa era quanto più vicino alla perfezione si possa concepire.
E rimasero così, stretti a guardare i tetti dal Pincio, sdraiati sulle panchine del parco, la maggior parte delle volte in silenzio, perché in effetti a cosa servono le parole?
E venne il giorno che Bianca ripartiva, insieme a Stella che non poteva starle più così vicino, non poteva più proteggerla, e Alberto insieme a loro che le accompagnava al treno, le lacrime agli occhi, e sempre e solo quelle quattro parole in bocca.
“Ti prego non partire” e forse, in effetti, quando hai diciotto anni dovresti proprio farlo, non partire, dovresti fregartene delle cose che ti aspettano in una casa che non senti più tua. Diavolo! Se non lo fai a diciotto anni, quando dovresti farlo? Perché dopo la vita si complica e allora sì che ci sono buone ragioni per partire, anche se non lo vorresti.
Ma andarono al treno, tre ragazzi così diversi, e Stella guardò dal finestrino Bianca e Alberto mentre piangevano e si salutavano e si promettevano di sentirsi quella sera stessa (Perdio Bianca piantala di piangere, ci puoi tornare anche il prossimo week – end se vuoi e hanno inventato i telefoni) e vedersi al più presto, e altre cose folli come il destino e il per sempre, cose che nella vita se sei fortunato pensi una o due volte.
E mentre il treno si allontanava e Bianca salutava con la mano, come sarebbe successo in un vecchio film d’amore, e Alberto restava immobile su quella banchina con tutti i suoi sogni negli occhi neri, e intanto Stella che si nascondeva in bagno a cercare di soffocare il pianto che le era venuto fuori vedendo tutta quella scena…
Mentre tutto questo accadeva, il ragazzo con il berretto verde, salito sul treno dietro di loro, frugò rapido nella borsa di Bianca.
E il telefono sparì.
“Nemmeno un vago ricordo del cognome?”, domandava Stella e doveva già essere la sesta volta che lo chiedeva ma non sapeva più cosa dire di fronte al pianto disperato di Bianca.
E Bianca che non la smetteva più di far venire giù lacrime e singhiozzava senza riuscire a controllarsi e sentiva dentro di sé crescere quella sensazione orribile di non poter ricordare nulla, perché quando parli di destino e di per sempre non ci riesci proprio a scendere in dettagli cosi inutili come un cognome.
E il fatto che concluse quella prima parte di storia fu che a Roma ci tornarono, Stella e Bianca, e lo cercarono ovunque. Ci consumarono le suole a Trastevere, e non una ma decine di volte, con decine di treni e di viaggi pieni di speranza, ma Alberto sembrava inghiottito da quella città, ora gigantesca e mostruosa.
Sì, credo che fu questo l’aspetto ironico della faccenda: Bianca finì per odiarla, quella città.
2010
L’aeroporto era affollato, cosa che irritava molto la scarsa tolleranza di Stella verso la gente. Con gli anni era peggiorata, Bianca lo sapeva ma aveva smesso di farglielo notare. Da un muro di cemento armato non ci puoi cavare nulla, tanto valeva rinunciare a cambiare le cose.
Erano in partenza per Santo Domingo.
Per ragioni diverse entrambe erano diventate donne da business class. Per placare l’irritazione di Stella, Bianca le mostrava nuovamente l’albergo in cui avrebbero alloggiato: balcone vista mare, ovviamente, non si badava a spese. Guardandole, nessuno avrebbe mai riconosciuto in loro le due ragazzine che per entrare nella cabina doccia dell’hotel bordello si erano dovute piegare di lato e lavarsi una metà alla volta.
Certo alcune cose erano rimaste immutate.
Intanto erano ancora lì, insieme, dopo tanti anni.
Fiumi interi di fatti erano passati in mezzo, amori e delusioni e sogni e progetti, ma la loro amicizia era rimasta intatta e ancora Stella si teneva quel mezzo passo dietro a Bianca.
Forse certe cose proprio non cambiano mai, nascono così e proseguono lineari fino alla fine: non importa quanto dolore e quali compromessi siano necessari per mantenerle in vita.
A volte proprio non importa.
Perdio sei ore di scalo a Roma, non c’era il volo diretto?
Bianca alzò gli occhi al cielo. Non vedeva l’ora di prendere quel volo, andare via dall’ennesima delusione e ritagliarsi un po’ di tempo per sé su una spiaggia bianca, dove non era necessario pensare per forza a qualcosa. Un desiderio che forse a diciotto anni non le sarebbe mai venuto in mente, voler spegnere il cervello così. Che spreco di tempo le sarebbe sembrato.
Ma tutto cambiava, tutto era in movimento, come in quell’aeroporto dove la gente andava e veniva e si trascinava dietro valige di aspettative e di cose inutili e raggiungeva posti che amava od odiava, come quel tizio là in fondo che teneva per mano una bambina capricciosa e le urlava di farla finita con quella sceneggiata (che se no le prendi), o la ragazza bionda che non la smetteva più di parlare al cellulare, o il ragazzo al bancone che litigava per avere un posto finestrino sul volo per Parigi.
Ognuno aveva le sue aspettative e a Bianca sembravano tutte inutili e tristi. Un posto corridoio fino a Parigi ti cambia la giornata, ragazzo? pensava, mentre Stella iniziava a camminare su e giù per il nervosismo.
Nella vita ci sono lucidissimi secondi in cui puoi immaginare che se il mondo dovesse finire proprio in quel momento andrebbe bene così. Perché a volte la consapevolezza del vuoto intorno all’esistenza è un pensiero che non puoi ricacciare via. Dura un attimo, ovviamente, altrimenti qualcuno l’avrebbe già fatto saltare per aria, il mondo.
Bianca ebbe per un attimo quella sensazione, la classica sensazione da fine del mondo, e fu in quel momento che il ragazzo che litigava per il posto finestrino si voltò verso di lei.
Un secondo.
Un solo secondo per riconoscere quegli occhi neri, che un ladro di telefoni aveva privato dei sogni più belli quando quel ragazzo non più tanto ragazzo aveva avuto diciotto anni e si era innamorato per la prima volta.
Bianca si raggelò sulla sedia, incapace di muoversi, incapace di pensare che lui era di nuovo lì, davanti a lei.
E perse così tanto tempo a recidere il velo di incredulità dagli occhi che quando finalmente ne fu libera lui era già scomparso.
Di nuovo.
Perso nella folla, di nuovo solo un nome senza un cognome, di nuovo due occhi neri pieni di lacrime fermi su una banchina ad aspettare il suo ritorno.
Di nuovo.
Quella pessima sensazione di orrore crescente che, Dio mio ora lo sentiva, non se n’era mai veramente andata.
Perdio Bianca. Prendi quell’aereo.
Certe cose non cambiano mai, ve l’ho detto. Ve l’ho detto che non esiste un dolore o un compromesso così inaccettabile da mutare quelle cose che non possono essere diverse da come sono nate.
Stella la guardò correre verso l’uscita numero 11, quella che portava Bianca di nuovo lontano da lei, quella che stava così lontana dall’uscita 34 che, ora lo capiva, era stata solo un’altra delle sue illusioni.
La guardava correre, il biglietto appena fatto stretto in quella mano minuscola, come se avesse ancora diciotto anni, con quella luce intorno che aveva perso un giorno in una stazione piena di gente e che non le aveva mai più visto addosso.
Piangeva Stella, ma era felice di rivedere quella luce.
Non poteva sapere.
Non seppe mai cosa si dissero su quel volo.
Lo immaginò tante volte, perché questo la faceva sentire un po’ meglio.
Pensava ancora a quel finestrino, ad Alberto, alle lacrime, a tutto pensava tranne che al volto di Bianca, perché quello era ancora un pensiero inaccettabile.
A volte riusciva persino a sognarlo, il loro incontro. Sognava gli occhi di lui che si spalancavano e quelli di Bianca che piangevano, perché perdio Bianca piangeva per ogni cosa.
Ma il rumore delle lamiere che si schiantavano al suolo la faceva sempre svegliare di colpo.
E allora iniziava un’altra giornata vuota.
Francesca Caldiani
1 febbraio 2014
Ciao.
Ci sono parecchie cose belle, in questo racconto. Cose come: “Stella era nata per quello, per coprirle le spalle, e non c’era un solo aspetto del loro stare insieme che non fosse del tutto avvilupato dentro quello schema.”. Giusto per restare al primo paragrafo, che, se vogliamo, è la cartina al tornasole di ciò che troveremo più avanti.
Però, a mio modesto avviso, ci sono alcune piccole sbavature, che tolgono un po’ di valore al brano. Come quando, in diversi punti del racconto, passi dal narratore omnisciente al tu retorico. E’ un peccato (premesso che uno può benissimo sorvolare, o non accorgersene).
Comunque il racconto è bello e la scrittura pulita.
I miei complimenti