Libro salvato da Marco LaTerra
“Delitto e castigo”, di Fedor Michailovic Dostoevskij, mi è entrato nel cuore nel corso della lunga estate del 1992: all’epoca ero un quindicenne grassottello, solitario e parecchio sfigato, alla ricerca di ‘non-si-sa-bene-cosa’ dato che, più di vent’anni dopo, credo di essere ancora ben lontano da una risposta compiuta. Adesso, forse, non sono più così drammaticamente grassottello, senza dubbio sono meno solitario di prima e, quanto allo sfigato… beh… non è questa la sede per scandagliare i percorsi tortuosi della mia mente.
Al contrario, molto più interessanti risultano i deliri paranoici di Rodiòn Romanovic Raskol’nikov, perso nel caldo torrido della San Pietroburgo di fine Ottocento, mentre avanza, sperduto in una sorta di realtà parallela, verso l’abitazione della vecchia e cinica usuraia Alёna Ivanovna, per assassinarla.
Un omicidio meditato e immaginato un’infinità di volte, dettato solo in parte dall’indigenza, per lo più pianificato sulla scorta di una concezione filosofica che, ai fini che qui interessano, ammette la soppressione di soggetti considerati inutili per la società.
Pidocchi, per intenderci.
L’indole di Raskol’nikov, di per sé priva di cattiveria, è malata di nichilismo e intrisa di non meglio definite teorie di uguaglianza sociale che, rapportate all’Individuo, odorano di Esistenzialismo. Spinto altresì da una radicata solitudine, disperatamente cercata, e in nome di un’analisi introspettiva che ha intrapreso per risolvere interrogativi universali, Raskol’nikov uccide in maniera metodica e distaccata l’usuraia e Lizaveta, sorella minore della donna, trovatasi accidentalmente nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Da lì l’incipit del Castigo, rappresentato non dal carcere ma da qualcosa di enormemente più drammatico: l’espiazione morale, l’inevitabilità del rimorso, la sofferenza dell’anima.
Nel corso di quella strana estate di vent’anni fa, mentre divoravo le pagine del romanzo, completamente insensibile, per non dire inconsapevole, di qualsiasi stimolo esterno, cercavo dentro di me ragioni che stigmatizzassero la condotta del protagonista, non riuscendone a trovare. Ero convinto che, tutto sommato, nessuno avrebbe sentito la mancanza di due esseri inutili, uno addirittura perfido e senza cuore e che, in linea generale, il diritto alla vita non fosse tale, bensì un privilegio che ci si doveva guadagnare ogni giorno. Inoltre, giunto alla conclusione dell’opera, ricordo che mi rimase l’amaro in bocca per due ragioni: la redenzione di Raskol’nikov per mano dell’Amore e, soprattutto, l’intervento salvifico di dio e delle “sacre” scritture.
All’epoca i germi dell’ateismo erano già vivi dentro di me e, nel vedere Raskol’nikov abiurare alle sue teorie in nome di un’improvvida debolezza, mi arrabbiai.
Ciononostante, il romanzo mi rimase nel cuore e mi spinse ad un’attenta rilettura, parecchi anni più tardi. Nel mentre, avevo assorbito tutte le opere di Dostoevskij e, ciliegina sulla torta, “Guerra e pace” di Lev Tolstoj (altro libro da salvare dallo sfacelo dell’epoca attuale). Dopo “Delitto e castigo”, che considero il mio primo vero romanzo da lettore, la mia indole ha fatto propria qualche altra opera di rilievo, come “Il Conte di Montecristo” di Alexandre Dumas, “Germinal” di Emile Zola, “Memoria delle mie puttane tristi” di Gabriel Garcia Marquez, “Lolita” di Vladimir Nabokov, “Educazione di una canaglia” di Edward Bunker e “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati.
Ne cito solo alcuni, ma potrei elencarne molti altri: tutti libri che, ciascuno a suo modo, hanno condizionato il mio modo di essere, di vivere e di morire.
L’impronta, però, mi è stata data da Dostoevskij e dal suo “Delitto e castigo”, grazie a cui spesso, nei miei oramai frequentissimi sogni a occhi aperti, mi sono ritrovato in bettole maleodoranti a disquisire con il vecchio Marmeladov, oppure in giro per San Pietroburgo a domandarmi come facesse Razumichin ad essere così candidamente ottimista, oppure ancora in compagnia di Lebezjatnikov, personaggio minore ma determinante per la felicità di Dunja, sorella di Raskol’nikov, e la salvezza di Sonja, co – protagonista del romanzo e archetipo della carità cristiana.
Ma, più di ogni altra cosa, i pensieri di Raskol’nikov intrisi di nichilismo, disperazione esistenziale e gioia di vivere, che mi invasero più di vent’anni fa per condurmi verso una soglia di conoscenza superiore, mi hanno marchiato a fuoco rendendomi eterno debitore nei confronti del suo autore.
E un uomo diverso, profondamente diverso, da quello che sarei potuto diventare se non avessi incontrato Rodja nel caldo torrido di Pietroburgo, un’accetta appesa nella fodera interna del pastrano, e un delitto da compiere.
Marco La terra