Libro salvato da Andrea Corona
a Silvia
Se dovessi salvare un solo libro fra quelli scampati alla fine del mondo, salverei 1984 di George Orwell. Il motivo è presto detto: Nineteen Eighty-Four ci parla del nostro passato, del nostro presente e del nostro destino futuro. E lo dico senza retorica e con molta serietà. La scelta di salvare questo romanzo è infatti molto personale, perché 1984 è un libro che cambia chi lo legge. E lo cambia sul serio: in riferimento all’incontro con l’opera d’arte (e coi libri), Gadamer parlava di “Erfahrung”, di “esperienza”, ma di una tipologia di esperienza diversa dalla comune “Erlebnis”. La parola tedesca Erfahrung rimanda infatti al mutamento implicito nel verbo fahren, che letteralmente vuol dire “fare un viaggio”. Questo vuol dire che – come ha poi rilevato anche Vattimo ne La fine della modernità – leggere un libro è come fare ritorno da un viaggio: un’esperienza al termine della quale si sanno altre cose, cose che ci hanno cambiato e che sono diventate parte della nostra nuova conformazione mentale. Ecco, è esattamente questo che 1984 significa per me: un romanzo che ha cambiato la mia forma mentis.
Gli elementi che hanno reso celebre il romanzo sono ben noti: lo scenario distopico, l’analisi del totalitarismo nei suoi aspetti più invasivi e opprimenti, la psicopolizia e lo psicoreato, gli assurdi slogan del partito («La guerra è pace», «La libertà è schiavitù», «L’ignoranza è forza»), la strumentalizzazione politica dell’informazione («Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato»), il Bipensiero, la Neolingua, fino al suo “personaggio” più famoso: il Grande Fratello. Di questi elementi vorrei ora analizzarne alcuni. Premetto che non è facile dire qualcosa di questo romanzo che non sia già stato detto, e così parlerò di 1984 attraverso altro da 1984.
Per capire quanto sia invasivo e opprimente – e attuale – il totalitarismo descritto da Orwell, mi rifarò a una tesi de Il godimento come fattore politico di Slavoj Žižek. Secondo il filosofo e psicanalista sloveno, l’assunto di base di un regime totalitario – in perfetta sintonia con l’epilogo del romanzo – è «non mi basta che tu mi obbedisca, voglio che tu mi ami». Non a caso, aggiunge Žižek, «Se nei bei tempi andati del Grande Fratello si temeva lo sguardo, oggi temiamo che egli non voglia guardarci». Vale a dire che oggi amiamo a tal punto il Grande Fratello e temiamo a tal punto di non essere guardati che ci spiamo a vicenda gli uni con gli altri, dando luogo a quella paradossale “shared privacy”, la cosiddetta “privacy condivisa”.
Andiamo avanti: Orwell è stato il primo a parlare del gioco d’azzardo e della pornografia come strumenti utili per tenere a bada le masse: il governo non può controllare coi teleschermi le vite di tutti, ma può, però, esercitare un “controllo” anche su chi non è video-sorvegliato. Ecco allora che questo tipo di intrattenimento serve a distrarre i “Prolet” da tutto il resto, persino dalle guerre (vere o finte che siano) che coinvolgono il loro stesso Paese. E se la guerra, scriveva la filosofa Simone Weil, «cancella ogni idea di scopo, fino all’idea stessa degli scopi della guerra», cancella anche «il pensiero stesso di metter fine alla guerra». Aggiungo questa considerazione in quanto, nel romanzo, il segretario del Partito, O’Brien, dirà nel suo discorso finale che «Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere».
E veniamo alla Neolingua, il progressivo depauperamento linguistico-concettuale di Nineteen Eighty-Four. A questo proposito, recupererei una frase del Tractatus di Wittgenstein, per il quale «i limiti del mio linguaggio costituiscono i limiti del mio mondo». Vale a dire che se il mio linguaggio è povero, lo sarà di conseguenza anche il mio pensiero. A questo punto, aggiungo un’ulteriore nota personale: domenica ricorreva la Giornata della Memoria, sicché, da par mio, ho ripreso dalla libreria alcuni testi sulla Shoah. Mi è capitata allora fra le mani questa frase di Esther Cohen Dabah: «L’abbreviabile è ciò che non si può narrare, è ciò che passa per la mutilazione della memoria». E questo è un punto che merita di essere approfondito, perché se 1984 è zeppo di slogan e abbreviazioni, Primo Levi, ne I sommersi e i salvati, descrive dettagliatamente il grado di spoliazione linguistica nel campo di concentramento, notando come il tedesco del lager fosse una lingua diversa, una nuova lingua, appunto, rispetto al tedesco standard: «Era una variante, particolarmente imbarbarita, di quella che un filologo ebreo tedesco, Klemperer, aveva battezzato Lingua Tertii Imperii, la lingua del Terzo Reich, proponendone anzi l’acrostico LTI, in analogia con i cento altri (NSDAP, SS, SA, SD, KZ, RKPA, WVHA, RSHA, BDM…) cari alla Germania di allora».
Ed è proprio così, perché Victor Klemperer, nel suo libro LTI. La lingua del Terzo Reich scrive precisamente questo. E la sua tesi viene ripresa dalla Cohen Dabah: «La lingua non fu la semplice spettatrice della società totalitaria, ma una complice attiva ed efficace di quel potere. E questo è il motivo per cui il “lavoro” fatto sulla lingua fu così importante. Il Terzo Reich dovette, infatti, impoverire fortemente il linguaggio, uniformandolo, abbreviandolo, per rendere gli esseri umani delle figure meccaniche, che si limitavano a rispondere agli stimoli del sistema, del Führer, delle SS, o di chiunque fosse capace d’imporre quel linguaggio povero, ma mortalmente rigido e manipolatore». Concludo: ci sarebbe ancora tanto da dire in proposito, ma se Esther Cohen Dabah, Primo Levi e Victor Klemperer notano come la lingua del totalitarismo, essendo fin dall’inizio una lingua malata di formule, slogan e abbreviazioni, diventò una lingua priva del carattere poetico, possiamo forse comprendere meglio lo stato d’animo di Winston Smith, il protagonista di 1984:
«Lo colpì il fatto che ciò che veramente caratterizzava la vita moderna non era tanto la sua crudeltà, né il generale senso d’insicurezza che si avvertiva, quanto quel vuoto, quell’apatia incolore»
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Andrea Corona