Racconto breve scritto e proposto da Giulia Costi
Prese la siringa e tolse il cappuccio. Rimase qualche secondo ad osservare l’ago appuntito. Per ragioni che gli erano ancora sconosciute la sua mente partì per uno dei suoi soliti viaggi. Il libro di fisica. Più piccola è l’area maggiore è la pressione applicata, ecco perché gli aghi sono così sottili. L’unità di misura della pressione ha lo stesso nome della sua scuola superiore. Strinse gli occhi, il libro di fisica si chiuse e ritornò nel limbo da dove era spuntato fuori.
La presa era salda attorno allo stantuffo di plastica. Non aveva paura, ma fece comunque tre respiri profondi, così, per precauzione. Rivolse la siringa verso di sé. Con un gesto violento ma preciso fece penetrare l’ago in tutta la sua lunghezza nello spazio centrale della gabbia toracica, appena sotto lo sterno. Con mano esperta sollevò lo stantuffo e cominciò a prelevare il liquido. Dieci minuti dopo un batuffolo di cotone tamponava le piccole gocce di sangue che defluivano pigramente dal forellino invisibile e, stretto in una calda e soffice felpa, osservava le fialette piene di liquido putrescente. Stavano lì, immobili ma ancora fiere come piccoli soldatini fatti prigionieri dall’esercito nemico. L’ultimo soldato catturato era ancora caldo, forse a causa della folle corsa tra le diramazioni labirintiche di arterie e vene, ma alla fine era stato preso anche lui e ora, nella sua cella di vetro, non poteva più far male a nessuno.
“I timori che da tempo cercavamo di tacere sono ormai evidenti e quantomai pressanti. Abbiamo rimandato l’inevitabile e questo lo sapete bene, ma oggi dobbiamo prendere una posizione per il bene della nostra specie. Da due anni a questa parte siamo a rischio carestia. Ogni mese una decina di nostri concittadini muore di stenti e la situazione non accenna a migliorare. Se non troviamo una soluzione al più presto ci estingueremo in un lasso di tempo brevissimo. Per il bene di tutta la comunità siamo chiamati a compiere un gesto tanto drammatico quanto indispensabile. Ho ponderato a lungo sulla questione, cari concittadini, e credetemi quando vi dico che questa è l’unica via. Qui fuori troverete le taniche di benzina che vi occorreranno. Ogni capo famiglia ne prenda una; il ritrovo è alle 20 di sabato davanti al cinema. Lo spettro della carestia non fa più paura.”
La biglietteria del Daydream era presa d’assalto. In programmazione c’era l’ultimo film della saga di Harry Potter e il gruppo degli spettatori era quanto di più eterogeneo si potesse immaginare. Bambini vestiti da maghetti con cicatrici a forma di saetta disegnate sulla fronte che aspettavano impazienti che i genitori ritirassero i biglietti, ragazzi ormai ventenni che avevano condiviso l’infanzia e l’adolescenza con Harry, Ron e Hermione e verso i quali sentivano un affetto che si può nutrire solo verso persone reali e, infine, qualche sporadico adulto appassionato di film fantasy.
Mentre il sole si abbassava dietro le colline della piccola cittadina di provincia, gli ultimi spettatori prendevano posto nell’unica sala del cinema e l’orologio del vecchio campanile suonava le 20.
Il vecchio orologio a pendolo batté le 20. Quanto si sarebbe volentieri sbarazzato di quell’ingombrante, e anche un po’ inquietante, reperto archeologico. Era anche vero che quell’orologio malconcio, ma ancora preciso, rappresentava tutto ciò che gli rimaneva di suo nonno, l’unico famigliare a cui avesse mai voluto bene. E l’odore del legno, di quel legno, gli richiamava alla mente tutti quei pomeriggi d’inverno trascorsi con il nonno seduti davanti a quel pendolo. Il camino acceso, il calore sul viso, le buffe ombre che la luce disegnava sulla fronte rugosa, i racconti sulla sua povera infanzia in campagna, la guerra, il cugino morto nella campagna di Russia, lo zio sepolto in una fossa comune in Germania. Mattia ascoltava tutto con avidità, nonostante ormai sapesse a memoria e riuscisse addirittura ad anticipare ogni particolare di ogni singolo racconto.
Ma così come l’estate lascia il posto all’autunno, i lieti pomeriggi trascorsi davanti al fuoco lasciarono il posto alla terra appena smossa dell’ennesima tomba del cimitero cittadino.
Fissando quell’orologio Mattia si ritrovò a pensare che nessuno, nessuno mai sarà speciale come suo nonno. Non aveva più aspettative, sapeva che la persona migliore del mondo se n’era andata lasciandolo circondato da miseri esseri viventi. Lo aveva lasciato solo.
Mattia si infilò le scarpe e scese in giardino. Bark, il suo gold terrier, lo accolse festante, fece qualche corsa sull’erba bagnata di pioggia e poi, come di consueto, si accucciò ai piedi del padrone. Non appena Mattia fece scattare la chiusura del guinzaglio Bark cominciò a tirarlo verso il cancello. “Basta davvero poco per renderti felice” pensò, mischiando ad un sorriso una punta d’invidia.
Federico teneva per mano la mamma: doveva sempre tenerle la mano quando si trovavano in luoghi affollati, gli raccomandava sempre. La mamma però adesso camminava troppo lentamente. Era strano: quando l’accompagnava fino al cancello della scuola gli sembrava che corresse, ora che invece c’era qualcosa di davvero importante per cui correre, la mamma camminava come una lumaca. Federico le tirava il braccio e le saltellava un paio di passi davanti incitandola a camminare più velocemente.
“Stai calmo, siamo in tempo.” disse lei nel vano tentativo di calmare il figlio. Ma il rumore si faceva via via più intenso e alimentava come benzina sul fuoco l’entusiasmo irrefrenabile del piccolo Federico.
Ecco la grande porta azzurra! La mamma abbassò la maniglia perché Federico non era abbastanza alto per arrivarci. Il rumore riempì loro le orecchie. Fecero appena in tempo a varcare la soglia che le luci si abbassarono e la pellicola del nuovo film di Harry Potter cominciò a danzare sulla tela bianca.
Friedrich teneva gli occhi bassi. Sentiva le voci sommesse dei compagni accovacciati al suo fianco. Aleggiava una tristezza quasi palpabile, ma nessuno lo notò, o forse nessuno volle notarlo. In fondo che cosa potevano fare? Era una questione di sopravvivenza! E questa giustificazione sembrava bastare a scacciare in loro quella vocina petulante chiamata coscienza. Eppure Friedrich ancora si tormentava: la sua vocina era ancora lì ad assillarlo con la sua consapevolezza di commettere un’azione a dir poco ributtante.
Finalmente Immanuel si alzò in piedi, quello era il segnale. La coscienza di Friedrich di colpo si affievolì, ormai non ci si poteva più tirare indietro. La missione stava per avere inizio.
Il sole era ormai scomparso dietro le colline lasciandosi dietro solo un piccolo residuo di luce arancione. Le strade erano deserte, ma Mattia decise comunque di percorrere il suo solito sentiero erboso. Quando passeggiava insieme a Bark in mezzo all’erba o sui selciati fangosi si sentiva leggero, sollevato, privo del fardello di essere uomo.
Bark si era un po’ calmato e ora camminava tranquillamente annusando ciuffi d’erba alla ricerca di qualche indizio sulla fauna canina locale.
Entrarono in una piccola radura isolata. Mattia si sedette sul tronco abbattuto di un vecchio albero e tolse il guinzaglio al cane, che subito cominciò a scodinzolare e a correre da una parte all’altra. Mattia si sdraiò sul tronco e si mise a contemplare il cielo ormai buio e inondato di stelle. La sua attenzione si spostò fuori dal suo corpo; in quei momenti si sentiva come se avesse fissato per un tempo infinito la vita brulicante delle formiche, dimentico dell’infinito. A volte si ha una prospettiva del tutto erronea. Viviamo dentro noi stessi, ci concentriamo sui nostri problemi, sulle nostre ambizioni, sul nostro futuro, sui nostri affetti, come se le stelle non esistessero. Ma esistono! E mentre se ne stava sdraiato a scorgere un pezzo dell’infinità dell’universo la sua prospettiva era finalmente quella giusta: in confronto alle stelle i suoi problemi, la sua vita, i suoi affetti erano insignificanti granelli di polvere. Nient’altro che piccoli, invisibili, patetici granelli di polvere. E cosa può fare un misero granello di polvere? Cosa può fare un misero Mattia? Nulla. E quindi tutto è niente. Niente ha importanza. La mente in pace. Gli occhi chiusi. Un sorriso.
Avevano accerchiato il Daydream. Dopo che Immanuel ebbe dato il segnale, tutte le gelatine avevano cominciato ad avanzare lentamente, ma risolutamente verso il cinema, protetti dalla loro invisibilità. Nessun essere umano poteva vederli mentre si avvicinavano. Tuttavia se avessero portato con loro le taniche di benzina sarebbero stati facilmente scoperti. Così avevano deciso di lasciarle in una fossa scavata il giorno precedente nel giardino adiacente al Daydream. Per un tacito accordo Immanuel era il capitano e camminava in testa al gruppo, che lo seguiva fedelmente. Il cuore di Friedrich era l’unico che urlava, implorava l’ammutinamento. “Fermatevi! Tornate indietro! Non possiamo farlo!” pregava dibattendoglisi nel petto, mozzandogli il fiato, facendogli pulsare le tempie. Eppure le gambe di Friedrich non si arrestavano, continuavano la loro avanzata come indipendenti dal resto del corpo.
Ed eccolo, una frazione di secondo più tardi, mente l’insegna al neon del Daydream gli si imprimeva nella retina, le narici piene dell’odore…
… di pop corn. Nell’intervallo del film tutti i bambini si erano precipitati a comprare qualcosa da sgranocchiare e ora, nella sala di nuovo buia, un intenso odore di pop corn accompagnava i tre maghi nella battaglia finale contro Voldemort.
Mattia stava tornando a casa. Bark era esausto e camminava lentamente al suo fianco. I due cominciarono a scendere dalla piccola collinetta sulla quale si erano avventurati. Da quel punto soprelevato poteva vedere tutta la città coperta dalla coltre blu della notte. All’orizzonte solo l’insegna al neon del cinema che risplendeva come un cero in un cimitero abbandonato. Eppure la luce era più intensa del solito, emetteva un bagliore accecante. Delle scie di fumo cominciavano a volteggiare nell’aria.
La benzina si era subito incendiata e un attimo dopo un anello di fuoco accerchiò tutto il perimetro del Daydream. L’olezzo di benzina era stato sostituito dal fumo asfissiante.
Harry stava sfidando Voldemort nella battaglia decisiva. Solo uno sarebbe sopravvissuto. Il piccolo Federico strinse la mano alla mamma.
Mattia correva giù per la collina, le pareti erano scivolose, aveva male al fianco, ma continuava a correre.
Friedrich e i compagni guardavano la macabra danza delle fiamme, assaporando gli ultimi istanti di vita di…
… Voldemort, sconfitto per sempre. Il mondo magico si era liberato dalla tirannia del più grande mago oscuro della storia.
Il calore delle fiamme gli bruciava le guance, proprio come il caminetto negli inverni della sua infanzia.
Bark correva spaventato verso una casa vuota.
Un ragazzo stava correndo verso di loro, ma non guardava il cinema in fiamme, guardava loro.
Immanuel e Mattia erano in piedi, l’uno di fronte all’altro e si fissavano negli occhi.
“Ho qualcosa per voi” annunciò con innaturale calma il ragazzo.
Poi estrasse una siringa e se la piantò nel petto. Le gelatine fissarono quell’inebriante spettacolo con occhi desiderosi. La siringa si riempì di liquido torbido. Mattia si sfilò l’ago e consegnò la siringa a Immanuel.
“Spegnete il fuoco e ne avrete altro”
“Non possiamo correre questo rischio. Prima dimostraci di averne ancora, poi spegneremo le fiamme.” rispose scettico.
“Ma non c’è tempo!” esclamò il ragazzo fissando le fiamme che si innalzavano verso il cielo.
“Allora sbrigati. Tra pochi minuti il cinema sarà un mucchio di ceneri fumanti. Friedrich verrà con te.” disse ammiccando alla gelatina.
Friedrich avanzò timidamente verso l’umano, lo prese per mano senza proferire parola e gli sorrise.
Mattia era in un abisso. Attorno a lui era tutto buio, deserto, gli sembrava che anche l’ossigeno fosse stato risucchiato da un qualche buco nero invisibile. Poi si ricordò. Volse la testa alla sua sinistra e notò una piccola massa gelatinosa e perlacea. Friedrich guardava fisso davanti a sé, completamente a suo agio.
“Dove siamo?” domandò Mattia, incapace di riconoscere quell’abisso.
“Stiamo andando dove tieni le emozioni.”
“Ma tu come fai a sapere dove sono?”
“Infatti non lo so. Desidero andare nel posto in cui sono conservate e questo mi basta per arrivarci, però non so dove stiamo andando. Forse puoi dirmelo tu.”
“Penso che siamo diretti a casa mia.”
Calò il silenzio mentre il viaggio nel limbo continuava.
“Sai di essere l’unico uomo in grado di vederci?” chiese Friedrich spezzando il pesante silenzio.
“L’avevo intuito quando ero bambino. Ma perché riesco a vedervi?”
“Non lo so, e credo che nessuno lo sappia. Hai lasciato tutti esterrefatti quando sei venuto da noi come se niente fosse.”
Il buio cominciava a dissolversi come nebbia. Mattia intravide delle pareti azzurre, poi una scrivania ed infine, l’anta di un armadio. I due viaggiatori erano nella stanza di Mattia.
“Dunque sono qui?” domandò la gelatina.
Mattia non rispose, si limitò ad aprire lo sportello. Una lunga fila di fialette contenenti un liquido scuro e torbido faceva bella mostra di sé davanti agli occhi sognanti di Friedrich. Non avevano tempo. Mattia afferrò tutte le fiale e se le infilò un nelle tasche dei jeans.
“Portami indietro, forza.”
Friedrich e Mattia si presero per mano e sprofondarono di nuovo nell’abisso.
Le emozioni riempivano l’aria e salivano fino al cielo insieme al fumo e alle urla. Le fiamme si erano aperte un varco dentro il cinema e ora lambivano la grande porta azzurra. Gli spettatori si accalcavano contro l’uscita d’emergenza, ma inutilmente, visto che le diligenti gelatine l’avevano sprangata. Le grida, i pugni contro la porta e contro l’uscita di sicurezza sovrastavano il crepitio assordante delle fiamme.
Fuori da quell’inferno le gelatine cenavano. Mangiavano avidamente le bolle di emozioni che fluttuavano nell’aria. Avevano un gusto amaro, il gusto delle emozioni negative, ma era sempre meglio del digiuno.
“Finalmente” gorgogliò Immanuel mentre finiva di inghiottire una grossa bolla, “finalmente provano emozioni!”. Jean-Paul, il più anziano del gruppo, mangiava con disgusto. Immanuel se ne accorse e burbero gli urlò “A nessuno piacciono le emozioni negative, ma sembra che siano le uniche in grado di provare. Cosa avremmo dovuto fare? Morire di stenti perché questi esseri umani non riescono più a sentire nulla? Avrei preferito anch’io indurre delle belle e succulente emozioni, ma sai che è impossibile. Le belle emozioni partono da dentro, non possiamo farle nascere noi. E visto che loro non provano più né gioia né dolore, siamo stati costretti a farli soffrire, a farli emozionare.” Ma Jean- Paul non era l’unico ad essere turbato. Tutta la comunità di gelatine si era raccolta intorno al Daydream per cenare, e molti deglutivano con le lacrime agli occhi. Il sapore salato delle lacrime si mischiava all’amara sensazione di paura provata dagli umani.
Le fiamme squarciarono il nero dell’abisso. Mattia si ritrovò davanti ad un cinema completamente avvolto dal fuoco. Le gelatine se ne stavano di fronte a quell’orrendo spettacolo e ingollavano centinaia di piccole bolle torbide con disgusto e desiderio. Mattia lasciò la mano di Friedrich e cominciò a cercare Immanuel, il capo del gruppo. Lo vide in lontananza mentre inveiva contro un suo simile. Si fece strada verso di lui, le fialette che tintinnavano nelle tasche. Immanuel lo vide arrivare e cessò di nutrirsi.
“Eccole” ansimò esausto per la corsa, togliendosi dalle tasche le decine di fiale ricolme.
Una gelatina che non aveva notato prima si avvicinò e mormorò deluso “Ancora negatività”, lanciò un’occhiata ad Immanuel e tornò al suo banchetto di tristezza.
“Qualcosa non va?” Mattia era in affanno, non più per la corsa, ma per il destino dei prigionieri del cinema.
“Sono negative. Immaginavo ci avresti fatto assaggiare qualche deliziosa sensazione e invece tutto ciò che ci hai portato è disperazione e tristezza?!” tuonò Immanuel furioso.
“Non erano questi i patti. Io vi ho portato le mie emozioni, ve le servo su un piatto d’argento, ma ora spegnete il fuoco!”
“Se devo sempre e solo cibarmi di negatività, almeno voglio inghiottirne fino all’ultima bolla” e mentre diceva così, strappò una manciata di fiale dalle mani di Mattia e fuggì. Le altre si infransero al suolo formando una pozzanghera fangosa che subito attirò cinque o sei gelatine affamate.
Le urla erano strazianti perché sempre più flebili. Il rumore dei pugni sulle porte era diventato meno frequente e meno intenso. Stavano morendo asfissiati dal fumo o bruciati vivi. Mattia si sentiva impotente, un granello di polvere in un infinito di stelle. Era piccolo e insignificante, ma proprio per questo poteva correre il rischio. Strinse i pugni, fece un respiro profondo, e si lanciò verso il Daydream.
Una sgangherata scala antincendio si arrampicava sul lato est dell’edificio, collegando il tetto al punto di raccolta a fianco all’ingresso. Mattia sapeva che sarebbe stato impossibile entrare da una delle due porte e non avrebbe comunque avuto il tempo materiale per togliere i blocchi applicati dalle gelatine. Si fiondò sulle scale, sentiva il calore del ferro penetrargli attraverso la maglietta. Per la seconda volta nella stessa sera si ritrovò a correre a perdifiato nel tentativo di salvare delle vite. Nel breve lasso di tempo che impiegò per raggiungere il tetto, Mattia capì molte cose. Forse capì più cose in quei pochi istanti che in tutti i suoi vent’anni di riflessioni.
Anche le vite che si dimenavano sotto i suoi piedi, che scalciavano in cerca di ossigeno, che non riuscivano a rassegnarsi alla parte mortale del loro essere erano niente. Le loro urla, il terrore che era stato loro inflitto era ben lungi dall’essere infinito. Se solo avessero cambiato prospettiva! Se solo fossero riusciti a prendersi un secondo per pensare avrebbero compreso tutta la loro insignificanza e la nullità della loro paura. Tutto sarebbe ridimensionato, le urla cesserebbero e con esse il terrore. Ma allora perché stava rischiando la propria vita per la loro? Per un semplice calcolo matematico, perché qualcosa dentro di lui gli diceva che era preferibile celebrare un solo funerale.
Raggiunse il tetto. Era tutto immerso nell’oscurità, ma grazie al bagliore delle fiamme, riuscì ad intravedere il lucernario che vegliava silenziosamente sull’ingresso del cinema. Frantumò il vetro con un calcio e una scheggia gli lacerò i jeans tagliandogli la pelle all’altezza della caviglia. Una colonna di fumo prese a sgorgare dal pertugio. Mattia ci si infilò dentro e si lasciò cadere.
Il soffitto era abbastanza basso così atterrò provando solo un lieve dolore alle ginocchia e alle piante dei piedi. L’atrio era completamente deserto; c’erano solo lui e le fiamme. Si tolse la maglietta e l’annodò attorno al collo coprendosi bocca e naso. Provò un immediato sollievo, che durò solo pochi minuti: il fumo era troppo intenso, e le fibre della sua t-shirt poco potevano contro un nemico così insidioso. Prese a camminare verso l’unica sala del cinema. Avrebbe voluto correre, avrebbe voluto urlare per avvisarli della sua presenza, per far loro sapere che qualcuno stava tentando di salvarli, ma sapeva che sarebbe stata una mossa che avrebbe messo a repentaglio la sua vita e, di conseguenza, la loro. Procedeva lentamente, calcolando ogni mossa, stando attento, non solo alla direzione che seguivano le fiamme propagandosi, ma anche ai tizzoni ardenti disseminati un po’ ovunque, ai pezzi di soffitto e alle travi divelte ammonticchiate in cumuli fumanti. Faticava sempre più a respirare, si sentiva i polmoni pesanti, la gola gli bruciava e gli occhi gli lacrimavano. Tremava. Si sentiva le mani scosse da tremori incontrollabili e le gambe deboli. Pensò si trattasse dell’istinto di conservazione che si risvegliava. Gli avrebbe volentieri dato un pugno: perché rispuntava fuori solo ora, solo ora che rischiava la vita e lo aveva invece lasciato in balia di eventi molto più gravi, di visioni traumatiche, di riflessioni devastanti?
“È troppo tardi. Il momento in cui avresti dovuto salvarmi è già passato e tu non c’eri.” pensò sorridendo. Sì, stava sorridendo mentre camminava tra il fuoco, mentre decine di persone distanti pochi metri stavano morendo e delle gelatine si cibavano della loro angoscia.
Ed eccola finalmente la grande porta azzurra! Mattia tolse la spranga di ferro che la bloccava e si bruciò le mani. Dentro la sala la temperatura doveva essere rovente. Posò la mano ustionata sulla maniglia e aprì la porta.
Se ne parlò per settimane intere. In televisione, sui giornali, in radio, per strada. La città era sconvolta dall’accaduto. Cortocircuito, sostenevano gli inquirenti, incapaci di trovare una vera causa all’incendio. “Tragedia sfiorata” questa era l’espressione usata maggiormente dai cittadini. Tutti gli spettatori rimasti intrappolati dentro il Daydream si erano salvati. Certo, alcuni di loro avevano riportato ustioni anche abbastanza gravi, altri erano stati trattenuti in ospedale per scongiurare complicanze a carico dell’apparato respiratorio, ma erano tutti salvi.
Ora, nel momento in cui scrivo queste righe, è trascorso quasi un anno dagli eventi narrati. La città è tornata al suo ritmo di sempre, come se il cinema fosse ancora in attività. Nessuno prova più emozioni dalla sera dell’incendio e temo… temo che verrà un’altra carestia.
Federico correva un po’ goffamente. Era imbottito come un panino, come dice sua mamma mentre gli mette guanti, sciarpa, cappello e para orecchi prima di uscire. Federico correva goffamente: voleva tornare a casa prima che facesse buio, o la mamma lo avrebbe messo in punizione. Attraversò l’alto cancello di ferro e si diresse verso il settore est. La trovò subito perché era isolata dalle altre. Era fermo, in piedi e fissava la pietra. Sospirò e una nuvoletta bianca gli uscì dalla bocca. Lasciò cadere il fiore che teneva in mano. In mancanza della sua presenza, accarezzò la pietra fredda. Sussurrò piano “Buon Natale, Mattia”. Fece un passo indietro senza distogliere lo sguardo dall’epitaffio. Poi si voltò e ricominciò a correre. A casa la mamma lo aspettava seduta davanti al caminetto per raccontargli come aveva ricevuto il suo primo peluche.
Giulia Costi