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Recensione di Marco La Terra

 “Puoi credermi, Pahtnah, si boxa sempre per qualcuno… Un padre, una donna, i figli… Per l’Altissimo, per quello che mi riguarda”

“Ero come te, io boxavo per gli altri. Ma Yoangel è diverso”

“Salire da solo sul ring è impossibile!…”

“Non conosci la sua forza…”

“Nessuno è abbastanza forte!”

“Yoangel boxa per sé”

“Allora è fottuto. È morto”

Chi vi scrive, purtroppo, non è mai stato un pugile.

Per educazione familiare, assoluta mancanza di talento e mezzi fisici, e tardiva scoperta di questo meraviglioso sport, chi vi scrive si limita a riempirsi i polmoni, appena può, dell’aria di autentico pugilato che trasuda la palestra nella quale si reca ad allenarsi. Nonostante l’oggettiva realtà delle cose, di cui anche un incallito sognatore come me ha dovuto prendere atto, mi sento onorato di aver colto lo spirito di questo sport e di averlo fatto mio nella vita di tutti i giorni.

Alla luce di questa premessa, non sento di poter condividere l’affermazione di Joyce Carol Oates (“non considero la boxe, per parlare da scrittore, metafora di qualcos’altro. (…) La vita è come la boxe in molti particolari inquietanti. Ma la boxe è soltanto come la boxe”) perché, a ben guardare, siamo tutti dei pugili sul ring della vita e, se uno decide di non combattere, ha già perso in partenza.

Getta l’asciugamano e muore.

Certo, verrebbe da pensare, l’incontro a due con l’Esistenza è già perso in partenza perché, al primo, quinto, nono o dodicesimo round, tutti dobbiamo soccombere.

Può darsi.

Non so come la pensiate voi, ma per come la vedo io avanzare verso il centro del quadrato con la guardia ben chiusa, i bicipiti alti, lo sguardo convinto e concentrato, pronti a dimostrare il proprio valore contro qualsiasi ostacolo, è già un incipit di immortalità.

Punti di vista, per carità.

Al di là di simili disquisizioni, peraltro discordanti rispetto al simbolismo evocato da Mal Tiempo, chi scrive sa di aver letto un libro diverso dal solito, intenso e delicato sia nelle descrizioni ambientali dell’isola di Cuba sia nella variopinta caratterizzazione dei personaggi.

Un libro a tutto tondo, essenziale e vibrante come il sordo rumore dei pugni contro il sacco eppure complesso e articolato al pari dell’arte pugilistica.

O del vivere secondo coerenza, giorno dopo giorno.

Proprio la coerenza è ciò che anima il cuore di Yoangel Corto, peso massimo cubano destinato a un sicuro avvenire: un pugile dalla forza spaventosa eppure stiloso e raffinato nel gesto tecnico.

Una meraviglia, insomma.

Eppure la sua testa è altrove, la convinzione che anima il suo combattere non è quella di un pugile vero e quindi, dopo tanti incontri vinti senza fatica in virtù di una superiorità quasi soprannaturale, si trova a dover affrontare se stesso e un pensiero che, lentamente, va erodendo le proprie certezze: un’idea più forte di qualsiasi combinazione di colpi possa aggredirlo.

L’idea che, forse, la boxe non rappresenta la risposta alle proprie domande.

Non avevo mai visto El Chino in quello stato. Era fuori di testa, scostava la gente col gomito, non bisognava toccare il suo gallo… prima di lasciarlo l’ha baciato sulla cresta. Il volatile avversario non era molto solido, aveva l’aria di non essere granché… Non appena ha sentito la sua presenza, il gallo di El Chino ha gonfiato le piume del collo, la sua gola ha fatto uno strano rumore e si è lanciato…”.

Yoangel raccoglieva delle manciate di sabbia, le faceva scivolare nell’incavo delle mani, a ritmo.

L’ha mancato, socio! Non che l’altro si fosse mosso, no… Semplicemente l’aveva mancato. È ricaduto a lato, è rotolato nella polvere! Ha ricominciato, uguale, lo stesso circo, due, tre volte! Si schiantava nella terra rossa, scuoteva le piume, l’idiota, e riprendeva a combattere. Tutti i guajiros se la ridevano, non avevano mai visto uno spettacolo così divertente! El Chino non voleva crederci, insisteva: ‘Vamos!’”.

Yoangel ha buttato la sabbia. Si è fregato le mani, se le è pulite sui pantaloni bianchi. Il tono della sua voce sembrava accompagnato dal mormorio triste della risacca.

Io avevo capito al primo colpo. Quel gallo non ci vedeva. Per quanto fosse robusto, era cieco, o quasi… L’altro l’ha capito d’istinto, ha cominciato a colpire, all’inizio col becco, poi con gli speroni. Qui da noi gli fissiamo una lama, socio, come un rasoio. I galli non conoscono la pietà. Se non li si ferma si cavano gli occhi, le interiora. Alla fine c’è la morte.

Il gallo di El Chino non lo vedeva arrivare, se no l’avrebbe schivato… L’altro gli ha tagliato la gola, gli ha fatto a brandelli il petto e le ali. Sanguinava. Ma finché si è tenuto sulle zampe, ha continuato la lotta. Era coraggioso, quel gallo, più di tutti noi. Le bestie non pensano. L’avevano messo in quell’arena, e resisteva.

El Chino non voleva saperne, aveva scommesso troppo. ‘Vamos!… Vamos!…’, Il povero animale andava a pezzi, la gente attorno urlava e lo prendeva in giro. Ogni volta si rialzava con quello strano rumore di gola. Non li sentiva più, i colpi”.

Le espressioni del suo viso riempivano i vuoti del racconto. L’assurdo canto del mondo. Aveva scordato la mia presenza. Intontito dalle proprie parole, si è interrotto nel bel mezzo di una frase. I suoi occhi scuri si sono posati su di me. Ha preso un respiro profondo. “È morto senza capire, socio”.

Non il solito romanzo volto ad esaltare l’arte pugilistica, spesso incompresa o, peggio, maltrattata da coloro che la ignorano, ma un’opera introspettiva dagli esiti tutt’altro che scontati. Un libro che, a suo modo, fa riflettere.

Un must per gli amanti del genere.

Imperdibile, per chi vi scrive.

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