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Curami

Dai racconti brevi di Ilaria Bonfanti

 

curami-raccnti-breviQuando le chiedevano come stava, rispondeva a modo suo, scegliendo colori sgargianti o sapori d’autunno.
Terribile non essere capaci di apprezzare il cambio delle stagioni; ma lei era in grado di cullarsi in quell’attesa, di fermare i momenti per scriverci sopra parole di china nera.
Dentro quelle mura si sentiva una regina: la regina dei folli.
C’erano volte in cui li radunava intorno a sé per raccontare loro una storia.
Placava le urla, quietava le crisi e l’isteria; regalava ai suoi matti ore di respiro e libertà.
Normale non lo era mai stata.
Normale lui non le avrebbe mai concesso di esserlo.
Essere speciale quando fuori tempesta. Essere speciale quando piovono soffioni.
Lui l’aveva cresciuta cibandola di pan di segale e stranezze; sfornava biscotti per il tè  delle cinque mentre ascoltava vecchie musiche partigiane.
Si abbracciavano di rado ma si volevano bene senza interruzione.
Discutevano di politica e le bambole di lei sapevano di sigari cubani; guardavano vecchi film in bianco e nero quando le castagne scoppiettavano in cucina.
Si lasciavano biglietti sul tavolo della cucina, il caffè ancora caldo e just like a woman.
Facevano lunghe camminate fino al fiume e senza dirsi niente parlavano di ogni cosa;
gettavano sassi nell’acqua e lui le raccontava di quando un ideale smuoveva masse, motivava persone, la faceva piangere per poi fare l’amore e far piangere di nuovo.
Spesso capitava la trattenesse quando lei era già in ritardo per la scuola citandole poesie di Montale e Neruda.
Lui, per lei, era l’amore.

Lui iniziò a perdere sogni e parole, a scorgere ansie e timori nel tempo, a sentirsi soffocato dalla vita e dalle persone.
Un giorno lei tornò a casa con stringhe di liquirizia e dilemmi kantiani da sottoporgli.
Lui non c’era più.
Ricordi che si attaccano a pareti e cemento.
Ricordi che si prendono respiri e rapiscono l’esistenza.
L’avevano portato via. Dicevano che lei fosse troppo giovane per prendersene cura, dicevano che serviva un’assistenza specifica che non sarebbe stata in grado di fornirgli, dicevano che l’istituto era l’unica soluzione valida per lui.
Dicevano che avrebbe potuto ascoltare della musica solo negli orari consentiti.
Non è possibile ascoltare musica solo negli orari consentiti, non è possibile avere orari consentiti, non è possibile stare senza musica mentre la paura ti suona nella testa; come facevano a non rendersene conto?
Era così difficile da capire?
Lui, per lei, era l’amore.

Lei cercò di spiegar loro che l’amore non può ridursi a una visita a settimana; ripeté   in ordine alfabetico i testi che lui avrebbe dovuto necessariamente avere in stanza, la marca che preferiva del tabacco per la pipa. “Signorina, in istituto non si può fumare”.
Ribadire divieti, sembrava non sapessero fare altro che quello.
Tutto dava ad intendere che le cose si stessero mettendo male; fu proprio in quel preciso momento che lei recitò Seneca, si strappò i vestiti e iniziò ad urlare.
Bisogna ammettere che fu abbastanza convincente da far credere a quegli idioti che l’istituto fosse il posto giusto per entrambi.
Lui, per lei, era l’amore.
La misero in istituto con lui. Ai loro occhi era lampante che in quella famiglia ci fosse qualche cosa di sbagliato: una malattia ereditaria, una follia contagiosa, qualche gene impazzito che li rendeva diversi dagli altri.
Normali non lo erano di certo quei due.
Normali non avrebbero mai voluto esserlo.
Poche parole suonavano brutte quanto “normale”.
Ora lei poteva vederlo tutti i giorni, fissarlo mentre raccoglieva foglie ed idee, sentirlo ridere quando guardava vecchie commedie italiane alla tv del refettorio. Adesso per lei non c’erano distrazioni che togliessero tempo prezioso a lui.
Lui, per lei, era l’amore.
Erano sempre stati solo loro due, dopo che la madre se n’era andata lasciandoli soli, senza spiegazioni, senza biglietti, senza pentimento, senza addii.
Senza una canzone.
Come si può lasciare qualcuno senza una canzone?
Lui le spiegava che non doveva esser arrabbiata e nemmeno portare rancore a quella donna, che c’era ancora tanto amore per tutti e tre.
Più volte, di notte, lui impacchettava regali e scriveva lettere alla luce di una candela, erano finte lettere di una madre senza cuore alla sua adorata figliola.
Lei lo sapeva.
Lei fingeva di essere sorpresa e felice quando riceveva posta da quella madre che odorava di tabacco e cognac.
Lui, per lei, era l’amore.

L’istituto dei matti era immerso nella tranquillità delle campagne, in inverno si tingeva di neve e, appena arrivava la primavera, gli alberi coloravano quelle pagine vuote preparando il campo al sole dell’estate.
Sempre più terribile non essere capaci di apprezzare il cambio delle stagioni.
Ognuna porta con sé il profumo di un cambiamento, la sicurezza di una svolta, la speranza di nuove emozioni.
The times they are a-changin’.
Lei però, con maggiore trepidazione, aspettava l’autunno, gli ordini dei libri e le castagne sul fuoco come quando tutto era senza paure.
Come quando i ricordi erano certezze che scoppiettavano nel camino, senza essere ombre nere che fagocitavano colori.
I rumori della città erano echi lontani e la piccola biblioteca accanto all’istituto la accarezzava nel suo dondolio, come nel passato le favole di Esopo, quando ancora lui la chiamava per nome.
Alle cuoche del refettorio aveva insegnato come fare un buon pane di segale e, nei periodi di festa, quando la maggior parte dei medici era in vacanza e i controlli assai ridotti, in istituto si ascoltava musica tutto il giorno.
Loro non riuscivano a capire dove nascondesse tutti quei cd.
Loro erano normali.

Lui aveva smesso di guardarla, fissava il vuoto pasteggiando con briciole di dolore.
Non riusciva ad ascoltare nient’altro che il silenzio.
Lei lo guardava vivere bramoso di morire; lei lo guardava morire mentre cercavano di convincerla che anche quella fosse vita.
Lei era terrorizzata alla sola idea di vivere una vita senza amore.
Lui, per lei, era l’amore.

Ilaria Bonfanti
[email protected]

Author: Ilaria Bonfanti

"Dammi del caffè (molto) nero bollente, una zucca da mettere nel forno e una bic nera senza gel, senza cappuccio e senza troppi fronzoli e ti assicuro che siamo già sulla buona strada. Aggiungici i miei ventisette anni e una vita divisa tra Bergamo e Rio de Janeiro, vita che mi ha resa una polentona con il sorriso carioca. Vanno a completare il quadro un giradischi che non smette mai di suonare musica, quella stessa musica rubata ai vari mercatini di antiquariato e, una montagna di libri. Libri che stanno nella testa, nei ricordi, nelle intenzioni e in giro per tutta la casa. Colleziono Baroni rampanti nelle diverse lingue, adoro andare al mare in bicicletta, stare in silenzio in autunno e rubare l'uvetta dalle fette di panettone. Non sopporto le colazioni fatte di fretta, le persone arroganti e il mese di novembre. Questa sono io e, con un po' di fortuna, ci capiterà di scontrarci in una libreria in giro per il mondo."

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2 Comments

  1. Una storia molto tenera e delicatamente accattivante dal ritmo leggero ma penetrante. Complimenti, per lo stile scorrevole e leggiadro pur toccando temi molto tragici. Bellissimo racconto

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  2. obrigada.
    :)

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