Recensione di Ilaria Bonfanti
Lo scenario è quello di una California primitiva, di una terra desolata e aspra, una terra totalmente selvaggia dove un vecchio racconta ai suoi nipoti la fine della civiltà moderna.
Sono passati sessant’anni da quella data, da quel fatidico 2013 e il mondo è ora una terra disabitata, con animali e persone allo stato brado, lontani anni luce da cultura e progresso.
Leggere il libro di London proprio alle soglie dell’anno 2013 è stata una coincidenza che mi ha fatto apprezzare ancora di più questo testo, il quale si avvicina forse più alla definizione di racconto lungo che a quella di romanzo.
Un’ottantina di pagine che si leggono tutte d’un fiato perché Jack London sa scrivere storie, sa raccontare, così come fa il suo protagonista al gruppo dei rozzi nipoti; questi ci appaiono da subito insofferenti e poco rispettosi nei confronti di un passato al quale non sentono per nulla di appartenere e dal quale hanno reciso ogni legame possibile.
Questo “nonno” va ad assumere il doppio ruolo di narratore e quello di eroe del racconto, terza persona e prima persona si intervallano in quest’opera che vede noi lettori affiancare i ragazzi nello splendido ruolo di “ascoltatori”.
In tutto il racconto, è l’importanza del narrare a fare da padrona, anche solo oralmente; come fa il Professor Smith, superstite della peste scarlatta che sterminò la civiltà appunto nel 2013.
Il libro è apparso per la prima volta nel 1912 e bisognerebbe leggerlo anche solo per l’ingenua lungimiranza con cui l’autore descrive quello che per lui è un futuro lontano e che, per noi, è l’immediato presente. Confesso di aver sorriso nel ritrovarmi descritta in questo futuro prepestilenziale, futuro che non dista poi così tanto dalla verità.
“Ero molto felice e mangiavo cose eccellenti. Avevo le mani morbide perché non mi servivano per lavorare, e il corpo pulito da capo a piedi e indossavo vestiti morbidissimi….”
“apparecchi in cielo: dirigibili e macchine volanti. Viaggiavano a trecento chilometri all’ora […] un tizio, era riuscito ad arrivare a cinquecento chilometri; ma ai più moderati era parso rischioso come progetto, troppo rischioso.”
Si può definire “La peste scarlatta” uno dei primi racconti apocalittici, anche se, a differenza dei suoi successori, quello su cui London sembra calcare la mano maggiormente è il forte degrado, la caduta inarrestabile verso il basso che caratterizza l’umanità in un momento così terribile. La solidarietà è qualcosa di raro mentre egoismo, violenza, bestialità e cattiveria fanno da padroni andando a delineare un genere umano bruto e privo di speranze.
Non ci sono navicelle spaziali e neppure tecnologia e fantascienza; in queste pagine troviamo però tantissima realtà, veniamo catapultati in un futuro di crudeltà umana che non può non toccarci nel profondo. La crudeltà descritta da questo vecchio vestito di cenci, non è qualcosa di inimmaginabile; purtroppo incarna una paura reale, una possibilità non troppo lontana di come si può arrivare facilmente ad una totale degenerazione dell’umanità.
Insieme alla cattiveria umana, da queste pagine, trasuda anche tantissimo dolore: brutalità e sofferenza vanno a braccetto e ci accompagnano per tutta la durata della storia.
Nelle parole del narratore leggiamo nitidamente la previsione di un ciclico ritorno alla distruzione. La polvere da sparo tornerà e gli uomini si uccideranno per creare nuove civiltà che poi torneranno ad estinguersi.
Jack London, da sempre definito come “autore per ragazzi”, in quest’opera riconferma la sua capacità di rivolgersi anche ad un pubblico adulto, regalandoci svariate perle di saggezza; ne riporto un solo esempio: alla domanda “Che cosa è l’istruzione?”, Labbro Leporino risponde: “Chiamare scarlatto il rosso”.
A lettura conclusa, rimane nel lettore un forte richiamo alla memoria, all’importanza di quest’ultima anche quando essa va perdendosi. Concludo la mia recensione usando le parole di Ottavio Fatica (tratte dal saggio “Davanti a una terra desolata”), “La condanna di chi non rammenta il passato è replicarlo. La condanna di chi lo ricorda è vederlo replicare sotto gli occhi senza poter fare niente per precluderlo.”
Ilaria Bonfanti [email protected]