Racconto breve di Thomas Ticci
Il capitano lavorava chino sulla chiglia intento a comprimere con la malabestia le fibre fra i chimenti. Aspirava la sigaretta semi spenta in lunghi e soppesati respiri, riattizzandola per poi abbandonarla di nuovo, pendula dal labbro inferiore squarciato e insensibile, mentre con gesto esperto del polso percorreva veloce e in linea retta le giunzioni delle tavole del fasciame.
Sollevava lo sguardo appena appena, sbirciando da sotto la tesa e fra i ciuffi unti e catramosi dei capelli, controllando il sole riflesso sullo specchio del Pacifico. Lasciò cadere lo scalpello di legno sulle assi del molo affianco al barattolo di cotonina e stiracchiò le ginocchia consunte sollevandosi nella spanciata pinguitudine della sua silhouette. Prima di notte avrebbe terminato di calafatare. Col buio avrebbe controllato la trozza e rammendato la vela aurica. Fece descrivere mezzo arco al boma per saggiarne la fluidità dei movimenti e dette uno strattone alle borose. Sputò in mare e riprese a lavorare col maglio da calafato. Attorno a lui gli uomini e le donne correvano convulsi in preda al panico.
Durante la salita aveva deciso di raggiungere la cima a vista, osservandola dal basso quasi fosse una muraglia. Un’altitudine tale da capovolgere i sensi e confondere i riferimenti. Un collasso di prospettiva e la vertigine della vetta. La sommità del crinale, crocefisso nel cielo terso, stagliava la sua seriosa irraggiungibilità come l’orizzonte e il miraggio. Un desiderio lontano. L’erto cipiglio fiero e severo e il suo sguardo d’implacabile autorità, erano giudizi minacciosi di sferzate taglienti di ghiaccio. Strinse la cinghia dello zaino sulla spalla.
Guardandosi e soppesandosi timorosi l’uomo, schiacciato dalla mole di pietra di lei, la montagna, guardinga dell’intelligenza foriera di devastazione così pericolosa e così umana, si studiano. Si volta solo un momento per calcolare l’ancoraggio e la strada mai lavorata mentre, appeso al barcaiolo, rimane sospeso a mezz’aria tenendo i piedi sulla placca. Deglutisce la paura assieme al gelo e alla consapevolezza di essere in solitaria, di non avere la possibilità di sbagliare, piantando i ramponi come fossero picchetti e aggrappandosi, non con mani ma con morse, al derma glaciale del suo corpo. Sale.
Qui è la salvezza pensò, mentre scendendo faceva fiammeggiare la luce del bengala e il fumo che, riverberandosi fra le pareti di tufo, gettava ombre inquiete e tremule. Si sistemò l’elmetto con la torcia cominciando a percorrere i cunicoli ripidi e tortuosi. Qui un tempo gli Ittiti avevano trovato riparo dalle scorrerie dei Frigi, pensava. Qui, fra questi intestini di pietra e sedimenti vulcanici, si aprono stanze preistoriche di diecimila anni.
Scandendo ogni gradino di quella che un tempo era chiamata la città di Derinkuyu si cala in profondità nell’anima stessa della Cappadocia. Si inabissa nella pietra antica e nell’aroma fresco e argilloso dal leggero sentore di mentolo. Lasciati i camini delle fate in superficie si appresta a raggiungere altre creature che vivono riparate nell’ombra, per unirsi a loro, per sopravvivere con loro, per diventare come loro.
O forse per rimanere solo coi tempi geologici e con le future ere glaciali che verranno nei millenni.
Non faceva più caso ai rumori che provenivano dalla strada in fondo al molo. Non sbirciava neppure dalla finestra della rimessa, neanche dopo due esplosioni di fucile. Ordinava calmo le sagole sui rocchetti e ripassava mentalmente il contenuto dell’attrezzatura da pesca. Controllò il cronografo che teneva rovesciato sul polso destro e agganciò, fra omero e fianco, le due boe bianche e arancio che caricò a bordo. Si tolse le scarpe gettandole sul pontile. Mollate le gomene fece scivolare la prua senza suono a pelo leggero sulla faccia inespressiva dell’Oceano allontanandosi dal gracchiante e intermittente morire della luce elettrica degli edifici che si spegnevano.
Forse il nut ha ceduto. Se ne accorge scivolando verso il basso col corpo rigido e rattrappito. Cade in fallo illuso da quella che gli sembrava una tacca stabile, mentre forze malevole e glaciali attraggono, bramanti, il tepore fugace di vita delle vene. Precipita e la forra assume sembianze di labbra ghignanti, fameliche e affamate, di un sorriso dai denti rocciosi. Si arresta. È in grado di fermarsi ancora una volta e ricominciare. A caccia delle proprie impronte ricalca i movimenti. Ripercorre i suoi passi, riguadagna l’altezza. Prosegue a stento pesante e sconnesso verso la vetta all’interno del camino.
Una leggera pellicola acquosa appannava il vetrino ellissoidale dell’igrometro. La lancetta puntava il cento percento già da decine di metri di profondità. La roccia porosa e farinacea sudava nel calore vischioso di budelli aggrovigliati che si incuneavano nei sedimenti dell’antico lago scomparso, riempito da una colata vulcanica dell’Hasan Dağ, la montagna dalla bocca biforcuta, millenni addietro. Ormai procedeva quasi carponi e solo lo stretto cunicolo li impedì di cadere rovinosamente sdraiato quando una scossa sismica prese a scuotere il mondo attorno a lui. Sentì le dita sprofondare appena nella parete nel disperato tentativo di non sbattere la testa mentre una pioggerella di detriti polverosi iniziava a saturare l’ambiente ristretto della caverna.
Il mondo finisce. Ognuno corre e cerca riparo. Le case crollano. I ponti s’inabissano. Piovono vetri dai muri di cemento e il ruggito sale lamentoso ingoiando altri suoni. Tutto trema. Il pianeta si scrolla un peso di dosso come un cane che si libera delle pulci.
Il mondo non finisce. Neppure questa volta. Finisce un’era, finisce un mondo. I fiumi spezzano gli argini, gli oceani si gonfiano e le tempeste estirpano ogni cosa.
Il capitano solleva lo sguardo mentre il sole viene oscurato da venticinque metri d’acqua furiosa.
La corda si sfibra in due secchi strattoni dopo che una clessidra ha ceduto di schianto.
La pietra si spezza e si apre sopra la testa cedendo alla pressione litostatica.
Forse nell’atavico sentire, oltre all’istinto di sopravvivere, vi è qualcosa che comanda ed impone ad alcuni di riprendere una strada antica e interrotta nel passato. E questo non ha niente a che fare con i giorni odierni, con la quotidianità e la sua medietà. Vi è un tempo degli uomini ed un tempo delle cose, alcuni la chiamano memoria, altri natura ma s’intraprende un cammino sempre per tornare, anche nel giorno ultimo del mondo. Anche se non sarà il nostro corpo a fare ritorno.
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