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Empatia

Un racconto breve di Raffaella Foresti
Ispirato da “L’abito nuovo” di Virginia Woolf

 

Prendete ad esempio una giovane professionista. Pensatela seduta, fra tanta gente, in una grande sala. Fate conto che sia… non so, diciamo un avvocato, e che nella grande sala si stia svolgendo un convegno promosso ed organizzato da un’associazione forense della provincia. Provate ad immaginarla mentre cerca di seguire il discorso.

Considerate che questa giovane donna, che è arrivata fin lì tutta sola – sappiate che nell’ambiente non conosce nessuno e nessuno la conosce – abbia nella sua borsa un libro. Il libro in questione potrebbe essere La vedova e il pappagallo e altri racconti di Virginia Woolf, comprato in edicola pochi giorni prima e pagato, mettiamo, cinquanta centesimi più il prezzo del quotidiano: due euro in tutto, perché, nel mercato che stiamo ipotizzando, pezzi di giornale già inutili il giorno dopo hanno valore più che doppio rispetto all’opera eterna.

Comunque, supponiamo che a questo punto l’incontro formativo a cui la nostra sta partecipando, dopo circa un’ora dal suo inizio, si faccia improvvisamente troppo, troppo doloroso da sopportare. Ebbene, certo non vi sarà difficile immaginarla approcciare il secondo racconto della raccolta, dal titolo L’abito nuovo, e confondersi con Mabel, la protagonista.

No! Non andava bene. E subito l’infelicità che cercava sempre di nascondere, quella sua profonda insoddisfazione – il senso di inferiorità che si trascinava appresso fin da bambina – la investì implacabile, crudele, con un’intensità che non avrebbe potuto scacciare leggendo Borrow o Scott, come faceva quando si svegliava di notte a casa sua; perché quegli uomini, oh, e quelle donne, stavano sicuramente tutti quanti pensando: “Come si è conciata Mabel? È spaventosa! Che orribile abito nuovo!”

Sollevando la testa dal libro, la nostra giovane donna si guarderebbe attorno, rincuorata dall’assenza di specchi nella sala, e non potrebbe fare a meno della presenza di Rose, seduta poche file più avanti, vestita all’ultima moda, esattamente come chiunque altro, sempre.

Siamo come mosche che annaspino verso l’orlo del piattino, penserebbe la nostra protagonista, pronunciando quelle parole come se stesse facendosi il segno della croce, o cercasse di trovare una formula magica per annullare quel tormento, per rendere sopportabile quell’agonia. Una frase di Shakespeare, una frase perfetta, mosche che annaspino, da ripetere all’infinito o almeno un numero sufficiente di volte da riuscire a vedere davvero le mosche trascinarsi lentamente fuori da un piattino di latte, anche tutte le Rose, sì, miserabili e insignificanti, con le ali appiccicate insieme.

Mabel, a poco a poco, avrebbe smesso di lottare. Sarebbe andata alla London Library, l’indomani. Avrebbe trovato un qualche libro meraviglioso, consolatorio, sorprendente, magari per caso, il libro di un prete, di un americano di cui nessuno aveva mai sentito parlare

Anche la nostra lettrice, ora, non vuole più lottare. Si alza dalla sedia di velluto: “Un convegno molto interessante – dice al collega vicino di sedia – ma ho paura di dover andare”. Ispirata da Mabel grida nella sua mente: “Menzogne, menzogne, menzogne!” e uscendo nel buio della sera ripete tra sé: dritta nel piattino… perdutamente avvolta in una vecchia sciarpa color dell’infanzia.

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Author: Alieni Metropolitani

Gli Alieni Metropolitani non cercano soluzioni. A volte ne trovano… é irrilevante. Appartengono alla Società e con sguardo consapevole ne colgono l’inconsistenza. Non sono accomunati da ideologia, religione o stile di vita ma da una medesima percezione del mondo. Accettano i riti della vita, riuscendone a provare imbarazzo. Scrivere! Una reazione creativa alla sterile inconsistenza del mondo.

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