Racconto breve di Alfredo Perna
Siamo seduti sulla panchina, Maria S. ed io, di fronte alla fontana delle scimmie. È chiamata così per via dei tre macachi in bronzo seduti alla base. Da diversi minuti fisso il centro della vasca dove l’acqua zampilla da un putto marmoreo, pensando al fatto che una fontana tanto bella sia alquanto curiosa in un Centro di Riabilitazione Visiva, in quanto nessuno dei degenti la potrà ammirare mai.
È estate, una serata accarezzata dal vento umido; l’odore delle magnolie è forte e le zanzare ci assalgono senza la speranza di un armistizio. Il loro acuto ronzio mi dà sui nervi e quando noto le diverse eruzioni cutanee sulle braccia mi rassegno al fatto di possedere sangue dolce a sufficienza per essere il gradito bersaglio delle loro incursioni.
Come tutti anche Maria S. non ama le zanzare. Tenta con un gesto vago di scacciarsene una dalla faccia e poi mi domanda cosa sto pensando. In certi momenti è come se lei fosse davvero in grado di leggermi dentro; come se possedesse un radar, al posto degli occhi, in grado di localizzare tutto ciò che ha dinnanzi.
Le mostro un sorriso imbarazzato proprio come se fosse in grado di scandagliare anche questo. A niente di particolare, dico. La rassicuro che tutto va bene e le dico per la seconda volta che sono disposto ad accompagnarla fino in Svizzera e a rimanere accanto a lei.
Maria esibisce a sua volta un sorriso impacciato, labbra sottili attorno a piccoli denti leggermente gialli di dentina, e si lascia uscire uno sbuffo d’aria dal naso. Volta la faccia in direzione della mia e per qualche attimo, dietro i suoi occhiali da sole, mi dà l’impressione di potermi osservare per davvero.
La accompagnerà suo padre, mi dice di nuovo.
A dire il vero, mi avrebbe fatto piacere accompagnarla in clinica e trattenermi in sala d’attesa fino al termine dell’operazione. Sarei restato lì a pensare a lei, a stare male per lei, e a fantasticare, forse, sulla sua reazione quando mi avrebbe visto per la prima volta. Ma a questo punto è veramente da stupidi insistere nella mia idea.
Preferisco cadere vittima del silenzio ostinato che regna su di noi.
L’altroieri è stato un giorno eccezionale per lei. Quando una delle infermiere l’ha riaccompagnata nella sua camera, al termine del corso di lettura serale, ha schiacciato l’interruttore della corrente e, come per reazione, Maria ha lanciato un grido terribile e gioioso allo stesso tempo.
Adesso gira la testa e fissa un punto imprecisato sullo sfondo della vasca nello stesso momento in cui io mi volto a guardarle i capelli. Probabilmente medita ancora su quel debole barlume di luce che è esploso improvviso nella camera oscura della sua testa. Deve essere stato come un lampo, veloce e abbagliante. Il giorno dopo è stata visitata dall’oculista del Centro che le ha consigliato il ricovero in questa clinica privata a Zurigo: se avesse seguito una certa cura ci sarebbero state buone possibilità che fosse tornata a vedere.
Da quel momento Maria non ha fatto altro che iniziare a immaginarsi come sarà bello il mondo quando potrà finalmente vederlo coi propri occhi. Le piacerebbe molto visitare Parigi o Londra, mi ha confidato.
È stato Mauro, un casertano di trentadue anni col quale condivido l’appartamento in affitto, a farmela incontrare, esattamente due settimane fa. Mauro lavora alla BRT come spedizioniere. È un tipo estremamente dinamico, assai positivo e al quale piace raccontare tutto ciò che fa e pensa. In un’unica parola è solare. L’esatto mio opposto: l’impacciato impiegato di banca che, nel fine settimana, ama gironzolare per casa senza fare nulla di speciale, o al massimo assieparsi su una poltrona, come farebbe un predatore senza un briciolo di ostinazione e incline ad accontentarsi di una preda molto piccola, a leggere un romanzo d’avventura.
Sono estremamente timido, questo l’avrete intuito. Mi sono comportato così per buona parte della mia esistenza, e non va bene. Lo so che non va bene, la vita richiede qualcosa di diverso dal tranquillo rifugio silenzioso sulla riva di un lago placido e senza increspature che mi sono creato. Per tutto questo tempo ho vissuto in compagnia di un me stesso che ha sempre volutamente ignorato che nulla, a dire il vero, filasse per il verso giusto dinnanzi a questo specchio d’acqua.
Poi una domenica pomeriggio Mauro bussa con due colpi alla porta della mia stanza, entra e mi viene a proporre una cosa un po’ strana.
– Ho parlato di te a una persona, della tua passione per i libri e del tuo impiego in banca, dice lui. Si chiama Maria ed è la cugina della mia ragazza. Ti va di conoscerla? Ti assicuro che è una ragazza intelligente (anche lei ha la passione per i libri) e molto sensibile – .
E mi dice anche una cosa che mi lascia di sasso. Mi dice che è cieca, che ha perduto la vista da neonata, in un incidente automobilistico. Ma dovresti vedere com’è brava a sentire gli odori, esclama.
Io cado dalle nuvole, un nodo mi attorciglia la bocca dello stomaco e non so proprio cosa rispondere. Non sono proprio convinto di questa cosa, ma prima che possa farglielo presente, con tutta la sua esuberanza Mauro mi afferra per un polso sollevandomi dalla poltrona e mi ordina: – dai, vestiti! Andiamo a trovarla all’istituto. Vedrai che ti piacerà -.
– Adesso? -, domando. – Dobbiamo andarci adesso? –
In maniera del tutto inaspettata, proprio quella domenica è avvenuta una svolta nella mia vita. È stata una scossa improvvisa, senza avvisaglie. Chi l’avrebbe mai detto? Ho visto Maria venirci incontro in giardino, col bastone, una mano tesa e lo sguardo, nascosto dietro l’inseparabile paio di lenti scure, che vagava alla ricerca di qualcosa di solido sopra cui posarsi. La mano tesa ha trovato dapprima quella di Mauro. Gliel’ha stretta debolmente per poi sfiorare il viso della sorella, prima di cingerle un fianco in un rapido abbraccio. Quindi Mauro e Paola hanno fatto le presentazioni. Daniele, Maria. Maria, Daniele. Poi si sono defilati, lasciandoci soli, per l’intera durata della visita. Abbiamo parlato a lungo, e di tante cose, quel pomeriggio. Ad esempio del fatto che a lei non piacesse stare lì, essendovi stata mandata dal padre per emanciparsi e diventare una vera cieca. Ha usato proprio questi termini.
Certi esercizi erano veramente terribili, poi, per esempio essere costretta a camminare col bastone lungo un percorso ad ostacoli. E la stessa scrittura Braille era impossibile da seguire.
Io, invece, le ho raccontato solamente del mio lavoro come impiegato alla Cassa di Risparmio di Firenze, lì a Perugia: per inciso abbiamo scoperto che è la stessa banca dove Maria ha aperto il conto corrente.
Siamo seduti su questa panchina da un sacco di tempo. Vengo a farle visita già da due settimane, ormai. Dovrei essere contento per le buone notizie che l’oculista del Centro le ha dato, eppure c’è qualcosa che me lo impedisce.
Il sole ha continuato imperterrito il suo percorso invisibile e ora riesce quasi a sfiorare le lussureggianti chiome degli alberi, alla nostra destra. Maria ha i capelli neri come la pece, in netto contrasto con la pelle bianchissima che brilla lungo la scriminatura. Le osservo la testa senza trovare il coraggio di guardare i suoi occhi e quel suo volto dai lineamenti delicati, baciati dai raggi del sole pomeridiano.
È un mostro terribile, la timidezza.
In tutti questi giorni non ho ancora trovato il coraggio di confessarle il mio sentimento, di dirle che l’amo come mai ho amato una donna in tutta la mia vita: la timidezza è Medusa con serpenti velenosi al posto dei capelli e lo sguardo spietato in grado di pietrificare chiunque la osservi.
E, intanto, il giorno della sua partenza si avvicina.
Maria ha lineamenti gentili che contrastano i miei, al contrario più marcati.
A un certo punto volta di nuovo la testa nella mia direzione e mi chiede se può esplorare la mia faccia.
Non sa ancora come sono fatto, mi dice.
Acconsento.
Avverto le sue dita tiepide a contatto sulla mia pelle.
È un’esperienza emozionante, un po’ come se uno scultore ti modellasse i contorni del viso con le mani: tasta le tempie, sfiora le guance, con calma e concentrazione.
Io trattengo il respiro.
– Il tuo naso è un po’ pronunciato -, mi dice, e lancia una risata stridula carica di eccitazione, mentre continua a scoprirmi. I tratti del mio volto rappresentano per lei luoghi geografici inesplorati.
Sfiora la superficie delle palpebre con i polpastrelli dei pollici.
– Di che colore sono i tuoi occhi? -, mi chiede.
– Verdi -, le rispondo.
All’improvviso stacca le dita dal mio volto e sembra rifletterci un po’.
Non sa che cosa significhi verde, mi dice scuotendo il capo.
Così raccolgo una foglia da un cespuglio alle nostre spalle, imitando l’illuminazione cinematografica di Rocky Dennis. Non so quanti di voi hanno visto Dietro la maschera con Eric Stoltz. Comunque, gliela stringo fra le dita in modo che possa rendersi conto della sua consistenza. Maria avvicina la foglia al naso, la inspira ed esclama: – Le foglie della magnolia hanno un odore eccezionale! –
– Questo è il verde -, le spiego.
Le si illumina il volto, seminascosto dagli occhiali, con un bel sorriso. Annuisce. Comprendo che ha inteso.
– La prima cosa che vorrò vedere quando avrò riacquistato la vista saranno i tuoi occhi -, mi dice.
– Va bene -, le rispondo felice.
Poi ci abbracciamo a lungo sotto lo sguardo cieco del putto marmoreo.