Recensione di Giorgio Michelangelo Fabbrucci
“Il Deserto dei Tartari“ è uno di quei libri ai quali ci si accosta a scuola, nell’adolescenza. Il suo nome richiama luoghi lontani e perigliosi. Nondimeno il contenuto viene subito dimenticato, inghiottito dai compiti estivi, dal tema, e dalle successive letture obbligate. Rimane nella mente un vago ricordo. Sappiamo che quel libro è importante perché ogni tanto, crescendo, lo abbiamo sentito citare relativamente alla solitudine e alla insoddisfazione.
Dopo sedici anni ho riletto questo libro ed è “rinato l’amore”. Amore per l’autore, Dino Buzzati, che risalta subito come gigantesco interprete della fragilità umana e della modernità.
Il romanzo percorre la vita di Giovanni Drogo, un giovane soldato destinato ad una Fortezza di confine, sul limitare del territorio degli Stati del Nord. Là, a capofitto sul vuoto deserto nemico, il novello ufficiale si dirige con i suoi pochi anni, in una piccola cavalcata Tolkeniana, pronto in cuor suo a vivere l’inizio di quella entusiasmante avventura che è la vita.
Non era imponente la Fortezza Bastiani con le sue basse mura, né in alcun modo bella, né pittoresca di torri e bastioni, assolutamente nulla c’era che consolasse quella nudità, che ricordasse le dolci cose della vita. Eppure, come la sera prima dal fondo della gola, Drogo la guardava ipnotizzato e un semplice orgasmo gli entrava nel cuore.
Drogo giunge dunque a destinazione, ma la meta si svela nella sua aspra sciupatezza. Un luogo ombroso, scandito dai monotoni ritmi della vita militare. Ritmi di guardia e compagni in arme appesi alla speranza di una minaccia reale.
Gli anni passano in fretta e dopo blandi tentavi di cambiamento, sviliti dal senso del dovere o dalla vana promessa guerresca che alberga nel suo cuore, Drogo diventa grande, adulto, acquisisce gradi. La fortezza rimane lì, sempre più nuda, sempre più silenziosa, sempre più al limitare delle speranze, più che al confine nemico.
I pochi contatti avuti con il mondo borghese, con la madre, con l’amica del cuore, risultano deludenti. Il mondo corre e lui, invece, sembra rimasto in una sfera sospesa nell’oblio, legato al sogno di un nemico, alla speranza di atti eroici che non si avvereranno mai.
Drogo diventa vecchio. Si ammala. A stento cammina. Proprio mentre le forze lo stanno abbandonando per sempre, il nemico si staglia all’orizzonte dal deserto, avanzando veloce verso la battaglia decisiva. Ma la sorte continua il suo corso a braccetto del tempo e Giovanni Drogo, costretto da un atto di amore e di egoismo del suo superiore (come scoprirete leggendo) viene allontanato in una comoda carrozza. Lascia disperato la sognata guerra alle spalle e torna alla sua casa di famiglia, dove lo attende un’ultima e disperata lotta.
In questa trama semplice, che si sviluppa fuori da un tempo e da uno spazio preciso, vi è una profondità che raramente si incontra. Vengono toccate dall’autore, con la mano lieve e micidiale di un chirurgo, le corde dell’animo di ogni essere umano: la ricerca incessante di un significato che dia senso alla vita, la fuga del tempo, la solitudine nel dolore, l’effetto anestetizzante della quotidianità, la burocrazia con i suoi riti, i suoi trucchi e la sua follia.
L’autore, più che mai in questo testo, è stato accostato a Leopardi, con il suo pessimismo. L’accostamento è facile, tra l’infinito e il deserto dei tartari, soprattutto nelle riflessioni intime che l’autore affida al suo Giovanni, davanti all’austera maestosità delle montagne. Eppure, a mio modesto avviso, Buzzati in questo romanzo non tocca solo l’assoluto, ma anche la fragile contingenza dei nostri tempi, inghiottita dai ritmi del lavoro e dalla speranza che all’improvviso tutti cambi, che arrivi un’occasione che stravolga la monotonia di tutti i giorni.
Lo stesso autore ha confessato di aver concepito questa storia nei corridoi del “Corriere della Sera”, quando a Milano era un giovane giornalista del quotidiano nazionale. Lo prese un senso di angoscia che portò ad una domanda semplice che ci poniamo tutti: “perché sto facendo tutto questo? A quale scopo?”.
La risposta che fornisce questo romanzo è desolante. Ciò nonostante la si può interpretare come un monito.
“Carpe Diem” direbbe Orazio.
“Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile” direbbe San Francesco.
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19 novembre 2012
Ho letto “Il deserto dei Tartari” due volte: la prima volta lo lessi nel 1995, a 18 anni e al di là di un vago senso di angoscia non ne colsi il reale messaggio… troppo giovane, troppo intriso di fervide aspettative future per sentirmi toccato da messaggi del genere… L’ho riletto l’anno scorso a 34 anni e, detto con brutale onestà, è stato qualcosa di lacerante. Lacerante e autentico. Se sarò ancora vivo, lo rileggerò a 50 anni e poi, alla fine, quando sarò vecchio. Ha ragione quanto scrive Giorgio: il testo non si limita ad essere desolante, ma è anche un monito offrendo, secondo me, anche un’implicita via di fuga. Anche se le montagne che circondano la Fortezza Bastiani sono alte e perigliose, a mio avviso devono essere scalate: anche se dietro non vi sarà niente, anche se sarà tutta fatica sprecata è inutile rimanere immobili a interrogarsi, aspettare e sperare nella “provvida man dal cielo”. Un gran testo, un’angoscia esistenziale espressa magistralmente e, proprio per questo, autentica e lacerante. Ma utile, se ci si riflette sopra un attimo. Utile e costruttiva.
19 novembre 2012
anch’io lessi questo romanzo a 18 anni, e mi piacque parecchio. però probabilmente non lo rileggerò. un po’ perché non ho l’abitudine di rileggere gli stessi libri. un po’ perché, come credo molti altri, mi sento un po’ un Giovanni Drogo del 2012. spesso non è facile uscire da fortezze, più o meno immaginarie, che ci fanno sentire al sicuro da quello che succede all’esterno. e vivere nell’attesa (di cosa, poi?) qualche volta ci consola. ora ho 25 anni, forse tra qualche anno potrei pensarla come marco. tutto è possibile.