La sera stava prepotentemente calando sulla piccola cittadina di provincia. Nell’aria umida si diffondeva l’odore dei pini e della legna. I lampioni ai lati delle strade, come piccoli falò, si accesero rischiarando i volti dei passanti. Un silenzio e una tranquillità irreali si insinuavano sotto la pelle, fin dentro le ossa. Decisi di andare a fare una passeggiata. Il polpaccio sinistro mi doleva un po’, ma il richiamo dell’aria invernale era irresistibile.
Una volta uscito di casa, mi balzò alla mente un’idea piuttosto insolita: avrei cambiato il mio solito percorso fatto di stradine sterrate e solitarie per immergermi tra i marciapiedi e le luci delle vie del centro. Non nascondo che provai una certa paura. Le gambe e le mani presero a tremare, quasi volessero impedirmi di portare a termine il mio nuovo, straordinario proposito.
Inspirai l’aria fredda e i polmoni mi si congelarono. Mi appoggiai alla cancellata sudicia che circondava la mia casa tentando di farmi forza.
Chiusi gli occhi.
Senza accorgermene mi ritrovai a sussurrare tra me e me “Ce la posso fare, ce la posso fare, ce la posso fare”.
Avevo il fiato corto, come se avessi corso chilometri e chilometri.
Con la poca forza rimasta mi scostai dal freddo metallo e mossi un passo. Continuavo a ripetermi quel mantra mentre mettevo un passo dietro l’altro. La disperazione cominciava a serpeggiarmi vicino, la sentivo arrivare, ma non potevo permetterle di impadronirsi di me.
Questa volta ero io a dover vincere.
Calpestavo il selciato, i piedi erano insolitamente pesanti, come immersi nel cemento. Non so quanto impiegai a raggiungere la tanto temuta strada principale. La prima cosa che letteralmente mi colpì fu la luce elettrica delle insegne dei negozi: alcune si illuminavano ad intermittenza, altre avevano alcune lampadine bruciate, così che era possibile leggere solo parte del nome, altre avevano luci azzurre, gialle, rosa.
Anche ora, se chiudo gli occhi, posso rivedere quell’enorme fascio di luce nella mia testa.
Sentii che le pupille mi diventarono uno spillo. A passi incerti mi gettai sul marciapiedi che costeggiava un malandato negozio di scarpe.
Come un fiume umano in piena, uomini e donne di tutte le età mi venivano incontro, guardavano le vetrine, chiacchieravano, ridevano, bevevano cioccolata fumante. Un chiassoso gruppetto di ragazzini sfrecciò sul marciapiedi opposto, urtando una vecchia signora impellicciata che non tardò a lamentarsi e a farneticare qualcosa sul rispetto e l’educazione.
La mia attenzione fu catturata da una bizzarra coppia. Una donna, con un cappello a tesa larga che lasciava intravedere solo le labbra rosse, camminava a passo veloce, inseguita da un coccodrillo che emetteva versi lamentosi. Due signore imbellettate guardarono con sdegno e con aria di sufficienza quel povero coccodrillo disperato, che tentava di spiegarsi in una lingua incomprensibile.
Il freddo si stava facendo intenso, così decisi di entrare in un piccolo bar, immerso nella penombra.
Appena entrato, la luce accecante dei neon divenne solo un ricordo, e il calore cominciò a stringermi nel suo accogliente abbraccio.
Mi sedetti al bancone.
Volevo bere qualcosa, ma non sapevo che cosa fosse possibile ordinare in un bar. Poco distanti da me, su alti sgabelli di legno, vidi un gruppo di scimmie che rideva sguaiatamente, sorseggiando un liquido color ambra. Non avevo idea di che cosa si trattasse, ma decisi di provare. Il barista, un signore sulla quarantina, con i capelli unti e spettinati e una vistosa pancia gonfia venne verso di me, strofinandosi le mani con una salvietta dal colore ormai indefinito. Una volta piazzatosi davanti a me vidi l’unico, povero, bottone che tentava tenacemente di chiudere il panciotto. Era tutto sudato e aveva la fronte corrugata dallo sforzo, quel povero bottone. Tentai di dargli il mio aiuto, così con l’indice gli asciugai il sudore. Gli sorrisi e lui mi rivolse uno sguardo pieno di gratitudine. Alzai gli occhi verso il barista e notai che mi guardava con un’aria seccata e al contempo comprensiva. Mi chiese cosa volessi ordinare. Io gli dissi che avrei voluto lo stesso intruglio che stavano bevendo quelle scimmiette palesemente brille sedute poco distanti.
Poi successe una cosa strana.
L’uomo scosse la testa unta e mi ordinò, con voce imperiosa, di uscire dal locale o altrimenti avrebbe chiamato la polizia.
Riluttante, lasciai quell’isola tranquilla per tuffarmi nuovamente in quell’oceano di visi, di vestiti e di luci. Non mi era chiaro il motivo per cui il barista si fosse tanto arrabbiato con me, ma ormai ero abituato a reazioni del genere e mi rassegnai subito.
Come avevo previsto, varcata la soglia del locale, un pugno invisibile alla bocca dello stomaco mi rubò tutta l’aria dai polmoni, lasciandomi ansante. Per non dare nell’occhio, facendo finta di sistemarmi il soffice e caldo gatto nero sulla testa, ripresi fiato. Dall’altro lato della strada vidi passare il dottor Sigmund, che ben conoscevo. In segno di saluto mi levai il gatto dalla testa e lui, per tutta risposta, fece dondolare la sua bella e liscia coda.
Era impossibile non notare il dottore, il suono dei suoi zoccoli sul cemento si sentiva a metri di distanza, e la sua criniera nera sprigionava un odore pungente caratteristico. Intere schiere di uomini e donne, al suo passaggio, si toglievano il cappello e facevano un cenno con la testa. Il dottore, per di più, aveva un certo fascino sulle donne e, devo ammetterlo, era proprio un bell’asino, con gli occhietti vispi e la criniera sempre tirata a lucido.
All’improvviso, al posto dell’asino comparve un uomo di media statura, dal fisico atletico, e dagli occhiali di corno.
Inutile dire che questa metamorfosi mi generò non poco spavento.
Un gatto soriano, bianco e sinuoso, intento a studiare la vetrina di un negozio di abiti, lasciò il posto a una giovane ragazza dai capelli color oro, raccolti con cura in uno chignon.
Non potevo crederci! Due splendidi passerotti che saltellavano in mezzo alla strada si trasformarono in un’orribile coppia di esseri umani che passeggiava mano nella mano e si guardava con occhi sognanti e pieni d’amore. Una morsa mi strinse lo stomaco. Il cuore prese a battere così violentemente che pensai volesse schizzarmi fuori dal petto. Sapevo che non avrei resistito ancora al cospetto di quell’inferno. In preda al panico iniziai a correre alla velocità massima che le mie gambe doloranti consentivano. Mentre schizzavo fuori da quell’abisso di esseri umani, vidi in lontananza due leoni maestosi trasformarsi in giovani e muscolosi uomini. Gli occhi mi si riempirono di lacrime.
Prima che le mie gambe cedessero, raggiunsi una piccola, buia, solitaria radura. Mi sedetti sul tronco spezzato di un albero per riposarmi e riordinare le idee. Le lacrime non smettevano di colare. La luce perlacea della luna appariva offuscata ai miei occhi. Mi tolsi il cappotto e lo gettai violentemente sull’erba umida di rugiada. Mi slacciai i primi bottoni della camicia. Mi presi la testa tra le mani e, preso dal panico, iniziai a singhiozzare. Le lacrime mi si gelarono sulle guance e mi punsero come piccoli aghi.
Inaspettatamente il cielo decise di farmi un regalo. Piccoli e timidi fiocchi di neve svolazzarono nell’aria.
Allungai una mano intorpidita dal freddo. Un fiocco si adagiò lievemente sul palmo. Mi portai la mano al volto e osservai da vicino quel piccolo grande dono. Era così delicato, così candido, così perfetto. Il cuore mi si strinse dalla commozione. Scoppiai a ridere e urlai il mio ringraziamento alla luna.
Senza raccogliere il cappotto, tenendo ben saldo il fiocco di neve in mano, corsi con rinnovata forza verso casa. Volevo conservare quel regalo, custodirlo come il più prezioso dei gioielli, tenerlo sempre accanto, l’amuleto della mia felicità! Gli alberi a fianco delle stradine sterrate sfrecciavano in macchie indistinte di colore e finalmente intravidi il comignolo della mia dolce dimora. Corsi come mai avevo fatto in vita mia. Spalancai il cancello che cominciava a ricoprirsi di una bianca e soffice coltre, arrivai davanti al portone, suonai con foga più volte.
Lena, con il suo impeccabile camice asettico, venne ad aprirmi e mi disse qualcosa a proposito di un “ritardo” e di “notte fonda”, ma non avevo tempo per prestarle attenzione. Salii i gradini che mi separavano dalla mia stanza, aprii la porta di legno così violentemente che andò a sbattere contro il muro.
Eccomi finalmente a casa, con il regalo più bello, più dolce e più prezioso che possa esistere! Chiusi qualche istante gli occhi per assaporare ancora di più il momento in cui lo avrei rivisto. Lentamente aprii la mano. Iniziai ad urlare, a prendere a calci il muro, a frantumare i quadri appesi alle pareti, a strappare i fogli adagiati sulla scrivania. Lena accorse immediatamente, tant’è che il cappello bianco le volò via dalla testa. Scostò le coperte del letto e mi invitò a sdraiarmi al caldo. Le guardai il volto solcato dalle rughe, così familiare e gentile che non potei fare a meno di ubbidirle. Lei si sedette su un lato del letto e mi chiese di raccontarle perché fossi così arrabbiato. Io le dissi semplicemente che la mia felicità, la mia perfetta e candida felicità si era sciolta, era svanita. Lei mi guardò piena di compassione, mi sussurrò qualcosa all’orecchio, andò alla finestra e scostò le tende. Nel buio della notte, una pioggia di neve cadeva lievemente sospinta dal debole vento svizzero. In una danza sinuosa e maestosa, i fiocchi geometrici disegnavano complesse figure nell’aria. Lena mi baciò sulla fronte, poi spense la luce e uscì dalla stanza. Io rimasi lì, immerso nell’oscurità, a contemplare la mia luminosa felicità aleggiare fuori dalla finestra.
Giulia Costi