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Recensione di Andrea Corona

 

«La mia vita, per così dire, non ha avuto uno scopo ben preciso. Certuni ne danno la colpa ai tempi, io la do a me stesso. I tempi non sono dei più rosei, ma sono arrivato alla conclusione che devo accontentarmi di questi»

Una nuova vita di Bernard Malamud ha qualcosa di monumentale. Come in un western, il romanzo si apre con l’arrivo di uno straniero, personaggio alquanto schivo e misterioso che, partito dall’est in compagnia della sua folta barba, lascia la frenetica New York City per cominciare una nuova vita nel remoto ovest (appunto). Ma, come nelle migliori storie ebraiche (vedi Coen), Seymour Levin vi giunge per equivoco. Estasiato, commosso e rapito dalla bellezza paesaggistica e dalla quiete della graziosa contea rurale dell’Oregon, sulle prime Seymour conviene che «se la capitale degli Stati Uniti si trovasse quaggiù la nostra vita nazionale sarebbe infinitamente più sensata». Quale sorpresa, dunque, per questo sfortunato insegnante di letteratura, scoprire di trovarsi nel posto sbagliato: non alla Cascadia University, sede di prestigiose facoltà umanistiche, bensì al Cascadia College, una facoltà di scienze agrarie piuttosto ostile allo studio delle arti e delle lettere…

Non ci vorrà molto, dunque, prima che l’amena Cascadia riveli il suo vero volto, un volto i cui lineamenti sono il campanilismo fra colleghi (si veda la «guerra fredda» per l’elezione del nuovo capo del dipartimento di Inglese) e la mentalità retrograda – quando non del tutto assente, come nel caso degli studenti. Al Cascadia College, infatti, gli studenti che praticano sport vengono favoriti a tutti gli altri, sebbene, come farà notare Levin, si tratti di autentici zucconi («certe matricole credono che un paragrafo sia una nuova invenzione o qualcosa del genere»).

Seguiranno degli interessanti sviluppi e colpi di scena, che non intendo anticipare; anche perché la trama sin qui delineata è sufficiente a far capire questo: che Bernard Malamud ha scritto un libro importante. Non una semplice parodia del sogno americano, ma un romanzo sull’incubo americano: siamo negli anni Cinquanta e «Il paese era diventato, nella paura e nelle autoaccuse, una nazione di spie e di comunisti. Il senatore McCarthy stringeva nel suo pugno peloso il nome di ciascuno. L’America era, nel senso migliore di una brutta parola, antiamericana». E, non a caso, non mancheranno nel romanzo la presenza di alcune liste nere, riguardanti da un lato la censura di alcuni capolavori della narrativa (da James Fenimore Cooper ad Ernest Hemingway) e dall’altro quegli stessi insegnanti che, come Levin, si opponevano al modesto programma di esercizi di grammatica previsti dal dipartimento e cercavano di fare della filosofia a lezione, spiegando agli studenti l’importanza delle materie umanistiche per le democrazie (come fa oggi Martha Nussbaum, per capirci).

Una nuova vita contiene numerosi riferimenti alla letteratura americana, da Hawthorne (La lettera scarlatta, Il velo nero del pastore) fino a Bellow (L’uomo in bilico, La vittima), ma vorrei aggiungere qualcosa circa l’estraneità di Seymour Levin al contesto, perché mentre leggevo il romanzo mi sono tornate più volte alla mente le parole del filosofo Jean-Luc Nancy, che apre il suo libro L’intruso con questa osservazione: «Bisogna che vi sia un che d’intruso nello straniero che, altrimenti, perderebbe la sua estraneità». E, in effetti, unico scapolo, unico barbuto e unico intellettuale della comunità, Levin non otterrà neppure il privilegio di un’identità ben precisa: se egli stesso si presenta agli altri come S. Levin, il narratore si riferirà a lui sempre come a «l’assistente», mentre i vari personaggi lo chiameranno di volta in volta, Sy, Sam o Lev (come farà la sua amante, l’asessuata Pauline, in quanto Lev è un nome più vicino a love). Insomma, in conclusione, quel che Malamud sembra voler dire è che in un’America così antiamericana come quella contemporanea è davvero difficile non sentirsi degli stranieri. Una nuova vita, in ciò, si configura come un’epopea sull’alienazione.

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