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Un Racconto scritto e proposto da Liliana Beggi

Il tacco e la punta che grattano il suolo in questa sera fredda risuonano come i battiti del mio cuore e mi accompagnano in una specie di fuga. Dove vado, se non ho un’altra tana dove nascondermi? Dove mi porta l’eco delle ingiurie velenose che ci siamo gettati addosso poco fa?

Inciampo in una buca e l’acqua fangosa spruzza fuori sommergendomi i piedi già freddi. È così che mi diventano quando sono in preda a quel genere di agitazione che confonde e mischia la ragione e il senso di colpa.

Una folata di vento mi sbatte in faccia i capelli sciolti. Sento un bruciore come punture di aghi sulla guancia. Uno scroscio improvviso di pioggia mi lava. Ho voglia di aprirmi e lasciarmi inondare dall’acqua che ha preso a cadere copiosa, ma poi la razionalità prevale e, stringendomi il soprabito addosso, mi riparo sotto una tettoia. Mi ricordo dell’ombrellino pieghevole che ho nella borsa, lo tiro fuori e, mentre lo apro, sento dei passi provenire da dietro l’angolo. D’impulso m’incammino, sono certa d’essere inseguita. Non so se ostentare tranquillità in un’andatura misurata o cedere al desiderio di scappare.

“Signora, mi scusi…” chiama la voce dietro di me. Non è lui – penso – e sono più delusa che sollevata.

Mi giro e vedo una figura che si avvicina. Decisamente non è lui. Aspetto e intanto valuto se fidarmi o meno. Non avrei il tempo né la forza di fuggire, in ogni caso.

L’uomo è giovane, qualche anno meno di me. È alto e rimane a bagnarsi, curvo, come nei film americani dove nessuno ha mai l’ombrello. Con una mano si stringe sotto il mento il bavero di un trench ormai fradicio. In testa ha un berretto, una specie di basco. Il suo viso è aperto e chiaro: nella luce incerta di un lampione i suoi occhi sembrano ammiccare in un sorriso riconoscente.

Mi scusi – ripete – non sono di qui. Mi hanno indicato un albergo che deve essere da queste parti, ma mi sono perso. Sa dirmi dov’è l’Hotel Touring?.

Mi accorgo che non ha bagagli e mi pare strano, ma forse ha l’auto qui vicino.

“È a piedi o in macchina?”, chiedo per fugare la mia diffidenza.

“Ho parcheggiato due strade più in là, pensavo che cercare a piedi fosse più semplice, ma non avevo fatto i conti con la pioggia”.

“In effetti non è lontano, ma ci sono i sensi unici che complicano le cose. Ha già una prenotazione?”. Penso a un altro hotel più vicino e meno complicato da raggiungere.

“No, me l’ha consigliato un amico. Dice che si trova sempre posto”.

“Sì, in effetti in questa stagione di turisti ce ne sono pochi”.

Sotto la tettoia dove ci siamo rifugiati mi sto concentrando per indicargli il percorso più facile, quando lo vedo abbassarsi e guardarmi il viso.

“Ma lei…” dice preoccupato e indica la mia guancia fin quasi a toccarmela.

D’istinto me la copro con la mano e mi ricordo del bruciore per via della sferzata in piena faccia.

“Che c’è?” chiedo e mi vergogno come una ladra perché è come se qualcuno, all’improvviso, mi avesse strappato di dosso tutti i vestiti. Rabbrividisco anche, proprio come se fossi nuda.

“Ha un brutto segno rosso e mi pare ci sia del sangue…”.

Tolgo la mano e la apro: in effetti il palmo è sporco di sangue misto ad acqua e c’è anche il nero del mio trucco sciolto. Che schifo, devo essere orribile e solo ora mi rendo conto in che stato sono. Davanti a questo sconosciuto scosto le falde del soprabito e vedo la camicia strappata fuori dai jeans macchiati di vino. Il bicchiere che mi è volato addosso prima, durante la lite.

“È solo vino…”, lo rassicuro.

“Senta, andiamo a bere qualcosa” dice e accenna alla luce di un bar poco distante. Fa per prendermi sottobraccio e io sono tentata di lasciarmi andare, finalmente.

Non cedo subito però, ho ancora la mia dignità. “E il suo hotel?” replico poco convinta.

“Quello può aspettare”.

Il bagno del bar ha uno specchio grande e mi occorrono dieci minuti buoni per recuperare un aspetto presentabile. Sulla guancia ho mascherato il taglietto che ha smesso di sanguinare e la chiazza rossa con del fondotinta. Sono un’altra quando rientro nella saletta. Il tizio è fuori a fumare una sigaretta, ma dalla vetrata mi vede subito e viene verso me. Mi aiuta a sedermi, spostando la sedia: strano in un uomo così giovane, questo gesto di cavalleria.

Ho una faccia così derelitta?

Ci rivolgiamo al cameriere per le ordinazioni, io un cognac invecchiato e lui un cocktail a base di rhum. Io ho bisogno di tirarmi su, lui non so, sembra a posto.

“Mi chiamo Andrea” dice, alzando il bicchiere.

“Giulia” rispondo e mi chiudo meglio il soprabito sulle ginocchia per coprire una macchia di vino.

“Hai voglia di parlare?” chiede. Gira il viso per bere e io noto le sue ciglia lunghe e scure. Anche i capelli, adesso che si è tolto il berretto. Sono castani e lisci. Ha un profilo da ragazzo non ancora segnato. Non voglio sapere quanti anni ha e non voglio dirgli quanti ne ho io. Vedo che evita di guardarmi.

“No, lasciamo stare, dimmi qualcosa di te”.

“Dimmi almeno se hai bisogno di aiuto, mi è sembrato che…” insiste.

“No, davvero. C’è stata una lite, è chiaro, e abbiamo esagerato. Anch’io però ho fatto la mia parte, ti assicuro. Ho tirato qualche piatto ed erano un regalo di sua madre…”.

Non so perché racconto queste balle, non ho tirato nessun piatto, tantomeno della mia ex futura suocera che non ci ha mai regalato niente, ma non voglio compatimenti e offerte d’aiuto che finirebbero per complicarmi la vita. Voglio solo stare in pace per un po’ e non pensare a lui, ai suoi occhi inferociti. Andrea non molla, però, non so se per pura curiosità o se desidera davvero fare qualcosa per me.

“Ma…avete spesso questi scambi di idee?”.

“Ultimamente sì: è diventato geloso e non sente ragioni”.

“Ne ha motivo?”.

“Beh, se l’intenzione è un motivo… allora sì. Non ho voglia di parlarne però, adesso dimmi di te”.

Così mi racconta del suo lavoro di restauratore che lo porta in giro a rattoppare dipinti e affreschi rovinati dal tempo o dall’incuria. Scherziamo e chiacchieriamo di musica e di qualche film che abbiamo visto entrambi. Tipico, ma è così piacevole starsene qui in questo posto dove non avevo mai messo piede prima, come se fosse tutto normale.

Poi mi rendo conto che si è fatto tardi –  è quasi mezzanotte – e che devo andarmene. Traccio una piantina su un foglietto a quadretti perché non sbagli la strada e mi alzo. Avverto l’impellenza di recuperare il tempo perduto chissà quando, chissà dove. Insiste per accompagnarmi, ma io rifiuto: adesso sto bene, ho solo bisogno di prendere aria, di fare due passi da sola. Mia madre abita qui vicino, è là che voglio andare e non importa l’ora: c’è abituata da qualche tempo. Mi dà il suo biglietto da visita e mi dice che avrebbe piacere se lo chiamassi, almeno per fargli sapere come sto: nei prossimi due mesi sarà in zona.

Io accenno di sì con la testa, ma sento di non averne nessuna intenzione, ho solo una fretta disperata.

Mentre ci salutiamo, scambiandoci i due baci di rito, fa una battuta sulle mie doti di lottatrice.

Sono fuori sulla strada buia ed è come se il destino mi avesse riacchiappato. Sento di nuovo risuonare i miei passi, tutto è come prima tranne che non piove più, anzi mi accorgo che il cielo è stellato e l’aria è limpida e trasparente.

Imbocco il vicolo che porta alla casa di mia madre e giro l’angolo con la fretta che mi attanaglia le gambe.

Una morsa mi agguanta e mi ghermisce alla gola, mi tira con violenza verso di sé, facendomi perdere l’equilibrio e, mentre mi aggrappo al mio giustiziere, una scarpa rotola via, lontano dalla mia portata.

Sembra irraggiungibile e in quel momento è la sola cosa che mi ferisce. Qualcuno mi ha tagliato le ali.

Mi ha seguito ed è stato tutto il tempo a spiare fuori dal bar e ora sa che l’ho tradito davvero.

Non posso più respirare, qualcosa mi spinge dietro e mi penetra senza dolore, mi porta dove non sono mai stata, dove non vorrei andare. Intorno non c’è nessuno, il silenzio è rotto soltanto da una grondaia intasata che perde acqua, lentamente. C’è un lampione a pochi passi e la sua luce obliqua colpisce in pieno la mia scarpa di vernice rovesciata. Il bagliore che ne sprigiona è l’ultima scintilla prima dell’oscurità.

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Liliana Beggi

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