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Passare l’aspirapolvere

Racconto scritto e proposto da Antonio Monteleone

I week end passano sempre uguali, nessuna modifica nel loro svolgimento. Al sabato mattina apro gli occhi in questa casa e non c’è niente da fare, vengo subito assalito da una specie di gravità che mi attira verso il nulla. Vago da una stanza all’altra. Passo l’aspirapolvere per tutta la casa; a volte mi capita di ripetere questa faccenda domestica anche più di una volta: quando termino le cinque stanze ricomincio da capo. Odio i week end perché mi separano dall’azienda.  Vengo scaraventato fuori dalle mie attività produttive e devo fare i conti con l’esistenza. Devo avere a che fare con il mio inferno personale; forse non sarà il peggiore su questa terra ma è pur sempre il mio. È solo la percezione di sé quella che conta, tutte le altre cose sono solo stronzate. Quando arriva la fine del turno al venerdì e mi incammino verso l’uscita con il badge in mano iniziano i tremori, l’angoscia di una libertà da vivere inizia a impossessarsi del mio cervello: il mio sistema nervoso viene ucciso da ogni cosa fuori dall’azienda. I parcheggi pieni di macchine in attesa di essere messe in moto, le donne che ridono in previsione di ritrovare la loro famiglia a casa, gli uomini distrutti ma sorridenti mentre sentono già il sapore di qualche intruglio alcolico da bere, tutto questo mi annienta. Io non sono predisposto alla sopravvivenza fuori dall’azienda. Potrei dare la colpa a Francesca che è andata via lasciandomi alla deriva nell’oceano di solitudine di queste stanze, ma sarebbe troppo semplice. E poi cos’altro avrebbe potuto fare? Ho lasciato appassire il nostro rapporto senza la minima precauzione, non c’è stato nemmeno il tentativo di un figlio. I figli vengono messi al mondo dai genitori come farmaci per curare le depressioni matrimoniali, ma spesso si rivelano delle accelerazioni verso il massacro. Mi sono limitato a osservare Francesca mentre usciva lasciandosi la porta alle spalle; poi ho chiuso il chiavistello e mi sono seduto sul divano aspettando il giorno dopo e l’inizio del turno di lavoro, nient’ altro. La reazione è stata estirpata dalla mia vita alla nascita. Sono stato espulso dal ventre materno  e incapsulato dentro una passività micidiale. Forse se mia madre non fosse morta per sputarmi su questa terra sarebbe stato diverso, ma anche questa è solo una supposizione, una scusa. Gli uomini si inventano sempre scuse per giustificare il loro modo di vivere, lo faccio anche io. Non sono stato attrezzato alla vita se non a quella dentro l’azienda. L’unico momento in cui vivo e quando i miei gesti sono inseriti dentro un preciso unisono produttivo da automa. Sincronizzo i movimenti con il ritmo dei macchinari industriali; una simbiosi perfetta che mi trasforma in una sorta di creatura biomeccanica. Il cervello viene azzerato e tutto viaggia verso l’automatismo alienante; una non vita che è più semplice da affrontare. Una volta ho letto un libro di Dostoevskij in cui si  parlava di vita viva da ricercare nelle piccole cose e che questa vita viva ci sfugge perché, aspettandoci chissà che cosa, non riusciamo a riconoscerla. Ma io non mi aspetto niente, il mio viaggio prosegue in un rettilineo ineludibile con l’unica direzione da percorrere in entrambi in sensi verso la vita morta. Quando avevo tredici anni ho trovato mio padre che dondolava appeso a una corda con l’osso ioide spaccato. Quella tragedia si snodava davanti ai miei occhi mentre rimanevo fermo a osservare l’oscillare ipnotico. Ero paralizzato in una staticità grottesca e dentro di me sentivo un’espansione irreversibile verso l’apatia.  Io esisto solo all’interno dei procedimenti aziendali, mi aggrappo a quest’approssimazione di esistenza.  Ho provato anche a diventare porno dipendente e per i primi mesi sono riuscito a trovare un minimo impulso vitale nell’autoerotismo maniacale, mi sentivo conformato alla società con la mia dipendenza nuova di zecca da presentare al mondo, poi anche quello ha perso di interesse; ogni tanto ci provo ancora ma adesso per eccitarmi devo andare alla ricerca dei video più orribili e a malapena riesco a farmelo diventare duro e spurgo dello sperma acquoso, privo di opalescenza, inconsistente. E allora passo l’aspirapolvere. Ritualizzo ogni secondo vissuto fuori dall’azienda attraverso la replicazione di gesti semplici; sono meccanismi apotropaici che mi permettono di affrontare l’esterno, protezioni contro la morsa di abulia parassitaria che prolifera dentro di me. Lavori semplici in cui sfogare una collera innocua, che mi permettono di autocannibalizzare ogni pensiero. Movimenti reiterati in modo ossessivo. La mia esistenza non deve uscire da questi binari, non posso mai interrompere il loop dei miei movimenti robotici. Adempiere alle mie mansioni con ordine, riporre i pezzi con precisione. Fare parte dell’ingranaggio lavorativo. Parlare di calcio, di figa, di ferie, di pensione e poi ricominciare da capo. Tutte le mie azioni devono essere chiuse ermeticamente dentro la ripetizione. Mai uscire dal percorso. Operare in modo efficace, efficiente. Stare dentro ai tempi previsti. Ripetere: nella ripetizione il tempo si dilata si vive dentro l’atemporalità, non ci sono nè scadenze nè inizi. Evitare di pensare, evitare di aprire il cassetto prendere la pistola e sparare.

Antonio Monteleone

Author: Alieni Metropolitani

Gli Alieni Metropolitani non cercano soluzioni. A volte ne trovano… é irrilevante. Appartengono alla Società e con sguardo consapevole ne colgono l’inconsistenza. Non sono accomunati da ideologia, religione o stile di vita ma da una medesima percezione del mondo. Accettano i riti della vita, riuscendone a provare imbarazzo. Scrivere! Una reazione creativa alla sterile inconsistenza del mondo.

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