Recensione di Andrea Corona
«Stringendo la birra come stesse bevendo, Dombrosio si unì a Fox nel loro consueto rituale, la finta consumazione dell’inesistente contenuto dei loro contenitori. Certi giorni era birra; altri giorni mangiavano cereali, gelato, verdure surgelate invisibili, fumavano sigarette fittizie. Una volta avevano persino regalato alla receptionist un paio di calze di nylon che lei non poteva vedere. La terra delle illusioni…»
I romanzi di Philip Dick vengono spesso separati in due blocchi ben distinti: quelli “realistici” e quelli “fantascientifici”. Tuttavia, leggendo L’uomo dai denti tutti uguali, un libro scritto nel 1960, ambientato nel 1962 e pubblicato postumo nel 1984 (cioè in piena America di Reagan, della quale il romanzo sembra effettivamente un ritratto, a riprova della lungimiranza dell’autore), ho avuto l’impressione di un’opera “fanta-realistica”. Sembra quasi che Dick abbia voluto dirci che in un futuro prossimo ci saremmo trovati a vivere in una realtà sempre più virtuale e, tuttavia, sempre più dominata dai rapporti di potere. Se le immagini da cui siamo circondati non sono reali, ma solo simulacri, ad essere reali saranno invece il predominio, la violenza e lo sfruttamento dei più deboli. Come ne I simulacri, romanzo del 1964 che, narrando di una California popolata da uomini di Neanderthal (sviluppatisi in seguito a una contaminazione radioattiva del sottosuolo) e da lager nazisti – «Sei nazista? Vuoi rimettere in piedi Dachau, o cosa?» è una frase presente ne L’uomo dai denti tutti uguali – ne rappresenta in qualche modo una prosecuzione.
The Man Whose Teeth Were All Exactly Alike si apre con Walt Dombrosio, un disegnatore industriale della Lausch Company, intento a lavorare in gran segreto a un nuovo prototipo delle lattine di birra Lucky Lager (apro una parentesi: se in Ubik lo spionaggio commerciale sarà molto sentito, il nome della Lausch Company rimanda al verbo tedesco “lauschen”, che vuol dire “ascoltare”, ma anche “origliare” e “spiare”): «Chi non racconta la verità forse non riesce a percepirla, rifletté Dombrosio. E, nel suo lavoro, saper distinguere tra realtà e finzione aveva un forte significato economico, se non altro per estensione». Eppure, sarà proprio Dombrosio a mischiare realtà e finzione quando, per ripicca nei confronti di un vicino ebreo, gli farà trovare un falso teschio di Neanderthal in giardino. Il teschio, dai denti tutti uguali, metterà in crisi tanto la comunità di Marin (l’ambientazione è quella di altri romanzi dickiani, da Confessioni di un artista di merda a Cronache del dopobomba) quanto la stessa comunità scientifica: il cranio è realmente umano, ma risale a non più di cent’anni prima. Possibile che in America esistano i Neanderthal?
In realtà Dombrosio, utilizzando le sue abilità e i suoi strumenti da lavoro, riesce ad “invecchiare” artificialmente il cranio di un residente della zona, un «degenerato» col tipico mascellone da chupper morto cent’anni prima, e a dargli un aspetto più antico. Ma l’esito delle indagini degli scienziati gli si ritorcerà contro: a causa di una contaminazione della falda acquifera, in quella zona della Contea è vissuta un’intera famiglia di chupper, e nuovi degenerati potrebbero ancora nascere. Dombrosio, che nel frattempo ha stuprato la moglie per ingravidarla contro il suo volere, dovrà fare i conti con il suo terrore più grande: avere un figlio ritardato.
Personalmente, ho trovato assolutamente straordinario il finale onirico del romanzo, con la lunga fantasia angosciante del futuro padre, che immagina la sua vita con un figlio neandertaliano. Eccola, dunque, la sentenza di Philip Dick: gli uomini di Neanderthal non sono i nostri antenati, ma i nostri successori; non il nostro passato, ma il nostro futuro (come avverrà, appunto, ne I simulacri, ambientato nel XXI secolo). L’evoluzione ha fatto marcia indietro, e la razza umana si sta involvendo.
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23 maggio 2014
Fantastico anche il finale della tua recensione.
23 maggio 2014
Grazie mille!