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Una difficile convivenza

Racconto Breve di Marco La Terra

 

Odio la gente ansiosa.

La gente che mi circonda ha fretta. Troppa fretta.

Non lo sopporto.

Detesto questo genere di persone, e disprezzo chi alza il tono della voce per farsi ascoltare.

Odio i gesti bruschi, immediati, inutili rispetto al pensiero che vorrebbero manifestare.

Un brivido di costante insofferenza scorre lungo la mia schiena.

Ho un pessimo carattere, lo so.

Bergamo, un sabato piovoso di fine estate: qualche giorno fa ero in Spagna, nel silenzio più assoluto.

Il silenzio: l’arma a doppio taglio per eccellenza.

Mi trovavo in Spagna, con l’unica preoccupazione di camminare e pensare agli affari miei. Vagavo libero in un mondo semplice, quasi primitivo, fatto di sole, colori, odori: il tripudio dei cinque sensi, che nascevano e morivano esclusivamente in me. Ero il solo essere umano di un ambiente che poteva accettarmi o rivoltarmisi contro: in entrambe le ipotesi, l’epilogo avrebbe avuto un senso e sarebbe stato giusto.

Ero io l’intruso.

Adesso, i miei occhi spenti osservano rassegnati e depressi la realtà quotidiana, quest’artificioso teatro. Nient’altro che un teatro.

Uno schifoso teatro.

Trentacinque anni spesi in un fottuto, schifoso teatro.

I burattini incrociano la mia strada, nelle loro forme buffe e colorate: avanzano in maniera scomposta e innaturale, con movenze sgraziate, sorrette da fili invisibili.

Camminano nella direzione opposta alla mia, parlando fra loro in un idioma sconosciuto: a volte sembrano osservarmi, dando l’impressione di non capire perché un uomo di trentacinque anni cammini solitario sotto la pioggia, senza riparo alcuno, fumando silenziosamente la pipa, ostile a tutto.

Avanzo lentamente lungo Via Venti Settembre: le opache luci dei negozi si fondono ben presto con la massa indistinta e l’insulso vociare, creando nella mia testa una luce accecante.

È la rabbia che comincia a salire.

 

Calmati! Sei tornato solamente da un giorno, e già non sopporti nessuno?

Questa gente che nemmeno conosci, questo vociare, fastidioso e incessante, che ti buca la testa, questi barbari corpi inutili, vuoti e senza senso, pressati l’uno contro l’altro quasi a volersi consolare dell’unico inevitabile destino: provo fastidio anch’io, ma sei tu ad avere il dominio del corpo, quindi sei tu a doverti controllare.

 

Osservo sconsolato l’onda informe avanzare verso di me, lenta e inesorabile: vengo sfiorato, attraversato da questi volti di legno inespressivi, mentre i capelli bagnati di pioggia mi ricadono sulla fronte, scomposti e ribelli.

Nel petto, una distinta sensazione di rabbiosa impotenza, sempre più intensa e incontrollabile: ovunque mi giri solo sorrisi forzati, volti anonimi e sguardi inconsapevoli.

Detesto tutto questo.

 

Ma cosa stai dicendo?

Tanto per cominciare, dovresti provare a riflettere prima di farti accecare dalla frustrazione e dalla rabbia: due anni fa è stato molto peggio, te lo ricordi? Tu e quel loculo chiamato ufficio, i colleghi che a stento ti rivolgevano la parola. E il tuo ex datore di lavoro? Era quasi più stronzo di te: allora sì che la situazione era davvero insopportabile!

L’anno scorso poi?

Ricordi come te la passavi, un anno fa di questi tempi? Nemmeno allora c’era troppo da divertirsi: niente lavoro, nessun soldo in tasca, l’irresistibile voglia di non tornare e perderti per il mondo…

Usa il cervello almeno una volta in vita tua e datti una calmata. 

Prova a chiudere gli occhi e a concentrarti: pensa a qualcuno, a qualcuno per una volta, non a qualcosa. Qualcuno che possa rischiarare quel groviglio che hai nella testa e offrirgli una parvenza di logica.

 

Provo a calmarmi: non ho alternativa.

Chiudo gli occhi e inspiro profondamente.

Nella voce della mia coscienza vi è un fondo di verità, in effetti, ma ho sempre odiato le pianificazioni studiate a tavolino: decido di soffocarla aumentando il volume dell’mp3, dove le note di ‘Hate it, and I’ll love you’ cominciano ad occupare le stanze principali della mia testa.

Mi abbandono alla musica. Al diavolo i burattini.

“Oh I am growing tired

Of allowing you to steal

Everything I have…”

Nella mente, avvolta dalle tenebre del nulla, una chiazza rossa dalle sfumature ambrate inizia a delinearsi, lentamente, come una specie di dissolvenza a rovescio.

I suoi capelli color del rame.

I suoi bellissimi capelli, color del rame.

I suoi bellissimi capelli, color del rame, intrisi di salsedine.

Inspiro profondamente, gli occhi sempre chiusi, quasi a voler negare l’esistenza di ciò che mi circonda, in questo piovoso pomeriggio di fine estate.

Vedo la sua chioma, sognata e mai sfiorata, riportarmi nei luoghi remoti appena lasciati: avanzo solitario con la mia consueta andatura, lenta e disarmonica, entro paesaggi infuocati e campi di grano nutriti dal sole, padrone e tiranno. La solitudine più completa a tenermi compagnia, giorno dopo giorno, antica fede di eroici fallimenti: madre, sorella, amica e amante.

Il mio unico tutto.

Nella memoria, la brutale dolcezza di ambienti primordiali che accolgono e sublimano il cuore con silenzi pieni di saggezza.

Silenzi avvolti dai suoi capelli ramati e dai suoi occhi castani, profondi e imperscrutabili. Occhi comparsi all’improvviso in questo sabato pomeriggio piovoso, vuoto, quasi disperato, per liberare il mio corpo dai fili invisibili dell’apparenza e ipnotizzare il mio cuore, addormentato da troppo tempo.

“You’re making me feel

Like I was born to service you

But I am growing by the hour…”

Non conosco questa donna, ne ignoro il nome, ma il suo corpo mi è familiare. Meglio: il suo corpo mi appartiene.

Riesco a vederlo chiaramente ormai, e un brivido di lussuria ancestrale mi rende ancor più libero, ancor più uomo.

Lei è sdraiata sulla spiaggia, pronta a intrappolarmi in un sogno senza fine, dove il sangue della passione si mischia al sapore della salsedine, al rumore della brezza marina, agli strilli rauchi dei gabbiani: le sue sembianze si stagliano chiaramente, forti e sensuali, grazie a uno strano gioco di luci e ombre, baciate dalle tonalità di questo tramonto surreale, quasi onirico.

Osservo il suo corpo intriso di passionalità lacerante, pronto a esplodere e stordirmi: la salsedine arricchisce l’essenza della sua pelle, morbida e setosa, dove un piccolo tatuaggio, scritto in una lingua sconosciuta, chiede solo di essere sfiorato.

Mi fermo sotto la pioggia, sperduto nel corpo, confortato nella mente, ed estraggo il mio astuccio di cuoio chiaro dove custodisco la pipa, un po’ di tabacco e tutti i sogni della mia vita.

L’intenso odore che immediatamente ne sprigiona, unito a quello del cuoio, si mischia all’aroma metallico della pioggia di fine estate: nuovamente mi perdo nell’effluvio sorto da questo strano connubio, alieno da rumori, suoni, corpi, voci. Estraggo il curapipe e sistemo il fornello, colmo di tabacco: lentamente lo accendo e inspiro profondamente, con boccate brevi e leggere, quasi impalpabili.

Adesso, i miei nervi intrisi di pioggia sono calmi, e tornano a studiare l’ambiente circostante con occhi fermi e rilassati.

E, mentre cerco di riallacciare il filo della mente al pensiero di lei, il fumo del tabacco avvolge la mia figura e una coltre di nebbia inghiotte tutto ciò che mi circonda.

Signori, il teatro sta per chiudere, abbiamo impiccato i burattini.

Il pubblico, deluso, lentamente si alza e se ne va, lasciandomi finalmente solo, immerso nella nebbia, a misurare l’ampiezza di questo scheletro di legno, cemento e ferro, avvolto in tendaggi di damasco rosso ormai sbiaditi, sfilacciati, ammuffiti.

Avanzo con calma, il mio pensiero nuovamente rivolto a lei che mi sorride distesa sulla spiaggia del mare, un paio di fossette ai lati della bocca, dolce e rossa come un cesto di fragole selvatiche.

Il mio corpo si muove lungo il palco: lo scricchiolio del legno sotto le scarpe di cuoio è l’unico rumore, qui intorno.

Una luce, vivida e intensa, invade nuovamente i miei occhi: questa volta, al suo esaurirsi non scorgo più burattini, né squallide macerie di teatri caduti in rovina. Davanti a me le sembianze di un mondo sconosciuto che posso appena intuire e sfiorare, dove non esistono altro che lei e l’intensa emozione che la sua visione mi provoca.

Un’istantanea dolce e delicata: il suo sorriso intenso, passionale e selvatico, gli occhi scuri padroni del mio cuore, la sua chioma color del rame che lega il mio corpo al suo.

Una felicità assoluta, sublime, perciò effimera come tutte le cose della vita: all’improvviso, una spaventosa deflagrazione dilania l’ossatura di questo squallido Leviatano.

Acciaio, legno e cemento esplodono all’improvviso: con un urlo di dolore, lo scheletro della bestia si accartoccia su se stesso schiacciando il mio fragile corpo.

Sono anch’io un burattino dopo tutto, nient’altro che un infimo frammento di quest’insulso, volgare teatro: questa è la tragica verità.

Il mio viso rigato di lacrime sta mutando colore, e nel suo farsi gesso esprime il rimpianto di un futuro strozzato: non potevo aspettarmi nulla di diverso, avrei dovuto capirlo prima.

Fuori di me, le luci muoiono in questa landa deserta e sconsolata, avvolte da una nebbia che non lascia speranza alcuna.

Sono solo, cieco e afono: spasmi terribili accompagnano questi ultimi istanti di vita, nell’amara consapevolezza che anche i sogni più puri sono destinati a non sbocciare.

Gelo e silenzio, intorno a me. Ombra, polvere e nient’altro.

In lontananza l’eco di un pianto sommesso: è il congedo del mio cuore o, forse, il suo pianto d’amore per me.

Non lo saprò mai.

Del resto, che importanza può avere tutto questo, adesso? Nulla ha più importanza, né senso.

I muscoli del mio corpo si irrigidiscono, i nervi si tendono, il viso contratto è una gelida maschera di morte.

È giunta la mia ora, finalmente.

Sono pronto.

Chiudo gli occhi.

Cala il sipario.

Dissolvenza.

___

Leggi altri racconti brevi degli Alieni Metropolitani!

city crowd – faelic – deviantart

Author: Marco La Terra

Marco La Terra, classe 1977, vive il senso di alienità dell’epoca infausta in cui è recluso in modo viscerale e sofferente, cercando di rintracciare in tutto ciò che è “altro da sé” una forma spuria di logica superiore.

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6 Comments

  1. Piacevole e interessante lettura, soprattutto di notte. Good! :)
    Saluti!

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  2. Grazie Dalila!

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  3. Ok, non c’è trama. A cosa servirebbe? Non c’è una morale (quella comunemente intesa), qualcosa di ancora più inutile. A proposito: Marcel Proust sosteneva che se uno scrittore spiega in termini didascalici cosa si proponeva di dire, è come colui che ti regala una scatola di cioccolatini dimenticanosi di togliere lo sontrino del prezzo. Più o meno.
    Ma leggendo alcuni racconti brevi Alieni Metropolitani, come questo, mi piacerebbe sentirmi un po’ più umanamente coinvolto. Altrimenti, a che serve scrivere.
    “Fiction’s about what is to be fucking human being”, ha scritto il grandissimo David Foster Wallace. Che dire.
    E’ bello scrivere. Ma leggere è ancora meglio. Forse un po’ più di sostanza, anche in tempi così “irrilevanti” come questi, non farebbe male.
    Perché, se non l’avete già fatto, non vi immergete nella lettura de “Il gioco del mondo” di Julio Cortazàr? Sarebbe un bagno esistenziale davvero salutare.

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  4. Enrico, per come la vedo io un racconto, specie breve, non necessariamente deve possedere una trama né, ancor di più, deve trasmettere una morale (associazione logica banale), tanto meno una morale comunemente intesa (associazione logica molto discutibile).
    Mi dispiace non essere riuscito nel mio intento, per quanto riguarda il mio relazionarmi con te, all’interno del rapporto scrittore – lettore: il mio obbiettivo era semplicemente quello di tessere un’emozione, costruirla e trasmetterla. Se il risultato non ti ha coinvolto mi dispiace, ma esiste la concreta possibilità che ciò sia accaduto perché, molto semplicemente, da un testo tu ed io ci aspettiamo contenuti differenti.
    Tuttavia a differenza tua, che assumi un atteggiamento (questo sì) un tantino didascalico, non mi ritengo nella posizione di esternare giudizi radicali (“forse un po’ di sostanza, anche in tempi così “irrilevanti” come questi, non farebbe male”) per il semplice fatto che non concepisco l’idea di una letteratura “giusta” e di una letteratura “sbagliata”. A mio avviso, tolti i casi estremi di testi – pattumiera, ciascuno di noi si appassiona per quei libri verso cui il proprio cuore e la propria forma mentis vengono trasportati.
    Perciò non ho il diritto di consigliarti questo o quel libro da leggere, per aprire la tua conoscenza verso lidi che probabilmente ignori: più semplicemente, posso solo consigliarti di continuare a leggere ciò che ritieni più adatto alla tua indole, e ai tuoi gusti personali.

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  5. Bene Marco, ho ottenuto quello che desideravo. Seguo da un po’ gli Alieni Metropolitani, e ieri sera navigando qua e là mi è capitato in maniera del tutto fortuita sotto gli occhi il tuo racconto (coerente al Manifesto Alieno, mi sembra).
    Seguo sia un po’ disordinatamente gli Alieni, perché forse lì c’è qualcosa che m’interessa.
    Quanto alla trama e alla morale, ben lungi da me l’idea che in uno scritto vi debbano essere obbligatoriamente. Ed è per tale ragione che ho citato i grandissimi, a modo loro, Wallace e Cortazàr. Non per dare consigli, ci mancherebbe. Per non parlare di Proust, che la questione della morale l’ha chiusa magistralmente con poche parole.
    No, non intendevo essere didascalico… ma insomma dalla letteratura mi aspetto che si faccia il massimo sforzo per ricercare, magari anche dolorosamente,cosa c’é rimasto in questo “Shitty world”(parole di DFW)che possa farci pensare a vicende, magari solo immaginate,che ci dimostrino come sia ancora possibile avere “rapporti genuini” tra esseri umani. Ben vengano dunque anche le parole in libertà sotto forma di racconti, se poi tali parole lette in senso unitario ci danno un’immagine di concretezza esistenziale.
    C’è materia per scambi di idee/impressioni/monofissazioni (le mie). Teniamoci in contatto.
    Un cordiale saluto.

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  6. Dai Marco, abbi pazienza. Per “un po’ più di sostanza” non intendevo ciò che avresti magari potuto aggiungere al tuo racconto, bensì a quanto (e non poco) c’è nel mondo in cui viviamo di “rilevante” che vale la pena di scoprire. E che cazzo! Perché allora dovremmo starcene qui adiscutere,piacevolmrente, di ‘ste cose.
    Poi concludo con qualcosa che non è un consiglio: d’avvero Wallace è un
    vostro (Alieno) scrittore di riferimento? Per me di sicuro lo è. Se ti interessa, se ne può parlare. Saluti.

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