Recensione di Marco La Terra
“To be, or not to be, that is the question”
(Shakespeare, Amleto, Atto III, Scena I)
Il primo concetto che mi sovviene, appena conclusa la lettura de ‘L’Opera galleggiante’ (Minimum Fax), è una frase nascosta nei meandri più reconditi della memoria, letta o sentita chissà dove, secondo cui, qualche volta nella vita, è un romanzo a scegliere il lettore, non il contrario.
Come postilla a questa affermazione mi sento di poter dire che, in casi del genere, non è per nulla scontato il sorgere di un rapporto armonioso e semplice tra il significato del testo e il lettore.
Mi spiego.
Ho viaggiato su L’Opera galleggiante più di un anno fa, rapito sia dalle molteplici vicende narrate dall’Autore, sia dallo stile utilizzato, che fa di Barth un vero e proprio ‘maestro di cerimonia’ nei riguardi di ogni singolo passeggero, accolto, accompagnato e scortato lungo il tragitto.
Tuttavia, giunto in prossimità del porto, non me la sono sentita di terminare il percorso: non so dirvi esattamente perché.
Probabilmente non mi reputavo all’altezza oppure, più semplicemente, non ero pronto.
Nel corso di quest’anno, e soprattutto nelle ultime settimane, molte cose sono mutate dentro di me, pur non avendo del tutto eliminato l’insicurezza legata ad alcuni concetti filosofici affrontati da Barth.
Concetti che, in tutta onestà, continuano a germinare domande.
Mi esprimo in maniera atipica rispetto ai canoni convenzionali di una recensione non perché abbia passato quasi tutta la notte a leggere, e digerire, l’intera Opera galleggiante (finalmente!) e quindi, al momento, mi senta avulso dall’intera realtà materiale (sensazione, del resto, molto ricorrente in me), bensì perché credo sia plausibile sentirsi così una volta terminato il viaggio.
D’accordo, direte voi, abbiamo capito.
Ma di cosa parla esattamente quest’Opera galleggiante? Quale potrà mai essere la potenza espressiva di un testo che, addirittura, spinge un recensore a sottrarsi al proprio compito (ossia parlare di un libro) per abbandonarsi a considerazioni personali che, peraltro, potrebbero non interessare chi legge?
I vostri dubbi sono più che leciti ma, in tutta onestà, non sento di dovervi delle scuse per questa mia eventuale mancanza.
C’è un perché, se ho deciso di adottare una simile esposizione in questa sede.
Semplicemente, L’Opera galleggiante è un Essere a sé stante, un’Entità pulsante e viva, autentica: Barth ne è il padre, l’origine e il creatore ma ciò che ha scritto, credetemi sulla fiducia, è qualcosa di indefinibile e, sul piano dei possibili epiloghi, incontrollabile. Se decidessi di parlarvi delle vicende occorse al protagonista, l’avvocato Todd Andrews, il giorno 21 (o 22?) giugno 1937, rovinerei tutto poiché, inevitabilmente, rischierei di esprimere valutazioni personali su concetti talmente complessi e profondi da richiedere una comprensione solitaria e autonoma, da parte del lettore.
Né, del resto, avrebbe senso che mi abbandonassi a una descrizione asettica e oggettiva della trama, sperando così di invogliarvi alla lettura del romanzo: in primo luogo perché, incarnando per un momento l’habitus mentale dell’avvocato Andrews, potrei rispondervi che, decideste o meno di leggerlo, di questa cosa non me ne importerebbe assolutamente nulla.
In secondo luogo perché, qualora non lo faceste, sareste del tutto pazzi.
Avanti quindi: strappatevi una buona volta la maschera dal viso come sto facendo io, qui, adesso, e abbiate coraggio! Osate!
Salite su questa monumentale, incredibile, fantasmagorica Opera galleggiante e lasciatevi trasportare lungo il fiume dell’esistenza: arriverete in porti diversi ma il punto d’approdo, qualunque sarà, avrà meritato il viaggio.
A voi la scelta, ma tenete a mente una cosa: non esiste un ritorno, né una seconda occasione.
Il biglietto è di sola andata.
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