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Marlene

Racconto breve di Ilaria Bonfanti

A Marlene ogni tanto capitava piombassero nelle sue notti più buie, trasformando albori di sogni in incubi terrificanti.

Erano sempre loro: quei panda dalle dita canute che immancabilmente tornavano a farle visita.

Erano sempre loro, sempre più terribili, pronti a distruggere lenzuola leggere e respiri soffici come cotone.

Marlene aveva i ricci, ma non dei ricci comuni; qualcuno scendeva a far visita ai suoi occhi verdeumore, qualcun altro se ne andava dove voleva, senza seguire alcuna direzione. I suoi ricci parevano infiniti, districarli era impossibile almeno quanto scovarne l’inizio e la fine. Erano neri, anzi nerissimi, perché lei era una bambina senza sfumature. In quel nero ci potevi trovare le paure di una vita appena nata ma già spesa a lottare per sopravvivere.

I panda erano tornati.

Nessuno le credeva; l’unica cosa che sapevano fare era parcheggiarla due volte a settimana da un coglione senza barba ma con tante targhette sulla porta.

– La bambina è un soggetto a rischio. Dobbiamo prendere la malattia subito, ora che siamo in tempo. Con le dovute cure potrà ritornare a stare bene. –

Se qualcuno si fosse fermato a chiederle come si sentiva, lei, la piccola Marlene dai boccoli d’ebano, avrebbe risposto che stava benissimo; ma è più facile costruire diagnosi sul nulla che ascoltare quello che le persone sentono davvero.

Marlene la pazza.

I bambini del cortile dovevano stare lontano da lei, dai suoi racconti surreali: parlava di panda spaventosi dalle dita rugose, diceva che erano veri, che si stanziavano nei suoi sogni senza avere la minima intenzione di andarsene. Diceva anche – ora devo andare, ho appuntamento col signore che cura i cervelli. –

Marlene: un nome inusuale.

Marlene: una bambina inusuale.

Marlene lo devi pronunciare tutto; difficile trovare un diminutivo, impossibile inventare un nomignolo che le calzi più a pennello del nome che le è stato dato.

Bella è bella però, dicevano nel quartiere.

Bella come sua madre.

Bella e matta come sua madre, appunto.

Sembrava non facessero altro che appuntarselo, quanto era meravigliosa, quanto era identica a sua madre.

Una sera di settembre era uscita da casa a piedi scalzi, diretta verso il fiume dal quale si era lasciata trasportare.

Una tragedia. Una famiglia distrutta, una famiglia così per bene e con una bambina appena nata.

Il paese si era fermato per qualche giorno ma poi le cose avevano ripreso a girare come al solito: stessa routine, stesse abitudini, identici rintocchi delle campane nei giorni di festa. Tutto uguale insomma, tranne in quella casa in fondo alla strada di ghiaia, lì qualcosa aveva smesso di suonare. Non c’era più musica nella casa in fondo alla strada.

– Tu sei matta come tua madre –

Il papà di Marlene era un brav’uomo, ma era troppo impegnato a dare un nome alla stranezza della figlia, senza rendersi conto che lei un nome particolare ce l’aveva già.

Psicologi, specialisti di ogni genere, naturopati e schiere di terapisti; Marlene era già pazza ancor prima di capire cosa volesse dire.

7 anni.

7 anni e dei panda tremendi non facevano altro che abbattersi sulle sue notti rovinandole il sonno.

Un panda non fa paura, un panda uno se lo immagina rubicondo e senza unghie, ma se lo si chiedeva a Marlene, la panoramica che si stagliava davanti agli occhi era ben differente.

Quando gli adulti del quartiere, quei genitori così apprensivi da non lasciare che i figli mantenessero un respiro regolare, quando loro smettevano di improvvisarsi gendarmi e si allontanavano dalle loro postazioni di vedetta, i bambini si avvicinavano alla strana ragazzina dai ricci scuri scuri e dagli occhi indefiniti.

-Che colore sono i tuoi occhi?-

-Il mio papà dice che sono verdi, o meglio, verdeumore –

-Cioè?-

-Cioè cambiano colore se sono triste o felice-

-E tu, sei felice?-

-Sì molto, ma non posso dirlo ad alta voce.-

I bambini tra loro si ascoltano, i bambini non costruiscono recinti dove metterci cose e persone, i bambini vanno protetti da adulti con molte etichette e poca fantasia.

Quando arrivava l’ora della merenda, gli amichetti del cortile a turno offrivano una casa e dolci vari ma, nessuno invitava mai Marlene.

Lei, allora, aveva preso l’abitudine di mangiare qualcosina sotto la vecchia acacia all’angolo della strada; così che il padre, non vedendola tornare, la pensasse a casa di qualche altro bambino, finalmente integrata.

L’estate passò veloce e con settembre arrivarono i primi freddi e quella sensazione di costrizione che accompagna la fine di una stagione di corse e giochi selvaggi.

I bambini del cortile, insieme a Marlene, decisero di andare al fiume per salutare le vacanze. Successe tutto in un attimo: la bambina si sporse per guardare quell’acqua gelida e in meno di un secondo la corrente la trasportò via.

Nessuno le aveva mai insegnato a nuotare, così che non potesse mai sfiorarla l’idea di entrare nell’acqua.

-E tu, sei felice?-

-Sì molto, ma non posso dirlo ad alta voce.-

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Author: Ilaria Bonfanti

"Dammi del caffè (molto) nero bollente, una zucca da mettere nel forno e una bic nera senza gel, senza cappuccio e senza troppi fronzoli e ti assicuro che siamo già sulla buona strada. Aggiungici i miei ventisette anni e una vita divisa tra Bergamo e Rio de Janeiro, vita che mi ha resa una polentona con il sorriso carioca. Vanno a completare il quadro un giradischi che non smette mai di suonare musica, quella stessa musica rubata ai vari mercatini di antiquariato e, una montagna di libri. Libri che stanno nella testa, nei ricordi, nelle intenzioni e in giro per tutta la casa. Colleziono Baroni rampanti nelle diverse lingue, adoro andare al mare in bicicletta, stare in silenzio in autunno e rubare l'uvetta dalle fette di panettone. Non sopporto le colazioni fatte di fretta, le persone arroganti e il mese di novembre. Questa sono io e, con un po' di fortuna, ci capiterà di scontrarci in una libreria in giro per il mondo."

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1 Comment

  1. mi piace il colore verdeumore, occhi cangianti fuori dalle convenzioni, dalle etichette. non avere paura dei sogni a volte è molto più difficile che imparare a nuotare, peccato.

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