Racconto scritto e proposto da Antonio Monteleone
Il rumore dello scotch marrone che uso per chiudere la scatola è una specie di scatarrata, uno sputo sulle ferite invisibili, lacerazioni della mia psiche sempre più precaria. Questa era l’ultima da chiudere, altre sette mi circondano. Una barriera, cubi di cartone pieni di pezzi della mia vita frantumata.
Ora il vuoto.
Il silenzio.
Ho lasciato solo alcuni poster attaccati alle pareti pallide. Sono l’unica eredità che mi sento di lasciare a questa stanza, il mio rifugio, il mio sepolcro in questi vent’anni. Sono il tributo ai muri che hanno cercato di proteggermi dalle emorragie e dagli ematomi dell’esistenza. Queste scatole sembrano smarrite. Sono strani esseri, spore ignare della loro prossima destinazione. Sette. Solo sette scatole in cui rinchiudere tutto. Quando chiudi la tua vita in una scatola, ti rendi conto di quanto sia misera, di quanto poco spazio occupi nel mondo.
Una volta una persona mi ha detto che i traslochi sono delle rinascite in cui si eliminano gli accumuli di sofferenza; non so se sia veramente così, ma a qualcosa ci si deve pur aggrappare per farsi trascinare verso una direzione, verso qualcosa di simile a una scheggia di vita.
Mi piaceva attaccare i poster dei film romantici, ma quei film non li guardavo mai. Mi servivano per sentirmi dentro quelle immagini patinate: erano l’illusione della possibilità di una vita diversa. I sorrisi felici, i baci scintillanti, le mani strette una nell’altra. Passavo giorni interi attorcigliata nel mio silenzio e ipnotizzata da quelle foto d’amori idealizzati. Era così banale nella sua semplicità, ma alla fine, ha funzionato sempre come palliativo: molto meglio degli antipsicotici di cui mi hanno farcito l’anima. Gli psichiatri ti guardano sempre con l’espressione rarefatta, impercettibile, avvolta nel loro cinismo indagatore di sintomatologie e possibili cure. Vi odio brutti stronzi perché l’unica cosa che avete tentato di fare è stata cancellare il mio dolore con dosi di neurolettici. Volevate che diventassi neutra, inutilizzabile. Ero la lavagna bianca su cui spremere la vostra voglia di diagnosi.
È stato verso i quindici anni che ho cominciato a dire che gli alieni venivano di notte, entravano nella mia stanza dalla finestra e avevano le mani con dita lunghissime e con quelle mani mi toccavano dappertutto. Erano mani sporche d’alieno che mi entravano nelle mutande, mi penetravano con le dita e scavano dentro la testa una tomba per la mia decomposizione psichica. Allora hanno cominciato a imbottirmi di Haldol. Dormivo per giorni interi senza capire se fossi realmente viva. Dei giorni morivo, altri resuscitavo. Non ero Gesù Cristo, ma anch’io potrei avere la mia cattedra e dare lezioni sul martirio. L’Haldol mi teneva a bada, chetava le porche mani degli alieni, ma c’era un prezzo da pagare: mi assorbiva la voglia di sopravvivere trascinandomi in un gorgo antiemozionale, creava intorno a me un recinto elettrificato di abulia da cui non riuscivo mai a scappare. Aumentava la distanza tra me e il mondo, lasciandomi alla deriva a fluttuare nel vuoto. Io invece volevo continuare a odiare. Se l’unico sentimento che riesci a provare è l’odio, se è l’unica emozione che ti fa sopravvivere e te la cancellano con i farmaci, è proprio in quel momento che non puoi più vivere. Ed io non potevo smettere di odiare, gli alieni non meritavano il mio perdono. Non potevo nascondere tutto sotto una nebbia farmacologica che offuscava la mia verità dentro l’oblio. Poi hanno deciso che l’Haldol era da sostituire con Il Serenase e dopo di che hanno aggiunto il Dobren per calmare l’inerzia che mi risucchiava verso l’indifferenza alla vita. Affogare nell’oceano di medicinali diventava giorno dopo giorno il mio unico compito. Sprofondare nell’abisso per non riemergere mai più. Ma loro, i medici, continuavano a tenermi a galla. Mi infilavano l’amo nella gola e mi tenevano su con la forza. Sadici e crudeli, dentro i camici bianchi, perfezionavano la loro recita, decidevano quale sarebbe stato il prossimo colpo di scena da inserire nella mia sceneggiatura.
E il colpo di scena alla fine è arrivato.
L’effetto sorpresa che tutti aspettavano fregandosi le mani. Gli spettatori increduli schiacciati sulle loro poltroncine rassicuranti, quelli che non riescono più a guardare e devono coprirsi gli occhi e che devono girare la faccia dall’altra parte possono essere contenti. Hanno provato l’ emozione del giorno.
Possono tornare a prendere fiato.
Uno.
Due.
Tre.
Respira.
Cinque anni dopo dalla finestra non entravano più gli alieni, era avvenuta una metamorfosi. Gli alieni si erano uniti in una sola entità. Un corpo fatto di schifo primordiale dominato dalla faccia di mio cugino Andrea. Continuava a ripetere che non stava succedendo nulla, che era tutto a posto e dovevo stare buona, mentre io non riuscivo a capire perché avessi di nuovo dieci anni.
E poi ho capito.
E poi ho gridato.
E poi ho pianto.
Sono uscita dalla stanza, scesa in strada e ho lacerato il cielo con la mia verità.
È stata una detonazione, il fungo nucleare che ha colpito una famiglia che faceva finta di non capire e, ancora adesso, mi guarda come il nemico da cui difendersi. Prendono ordini dalla vergogna, indottrinati e rinchiusi nella loro omertà spregevole vivono nascosti dietro il loro bigottismo retrogrado.
I poster d’amore patinato piangono mentre chiudo la porta della stanza alle mie spalle.
Marco mi aspetta per accogliermi nella mia nuova vita.
Mi aspetta il non vergognarmi di me stessa, mi aspetta la sua comprensione. Mi aspetta qualcosa che devo ancora capire, ma che sembra migliore di quello avuto fino a ora.
Non ci sarà più, spero, questo terrore, quest’angoscia che cresce e prolifera come un groviglio di microbi e vermi. Non ci saranno più gli alieni. Non ci sarà più mio cugino Andrea. Non avrò più dieci anni.
Non mi volto. È un addio, un non ritorno.
Antonio Monteleone