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Sermo Cactaceae

Racconto breve di Giorgio Michelangelo Fabbrucci

 

Si sporge dalla finestra. Ha la fronte sudata. Non è depresso. E’ teso, stanco. Una stanchezza nervosa, di quelle che lasciano intorpiditi. Sbuffa. Vorrebbe fumare ma non lo fa. Si volta. Si avvicina a lui con movimenti secchi.

“Dobbiamo trovare una soluzione”, grida. “Non ce la faccio più a tornare a casa e sapere che ogni volta mi aspetterà una discussione! Te ne sei stato zitto per mesi e poi, così, di botto, ti sei messo a parlare… che poi fosse parlare il tuo! Filosofeggi, ti lamenti, gridi perfino!”.

“Ad onor del vero sei tu quello grida, adesso. E poi mettiti nei miei panni, prova a pensare di essere al mio posto, anche solo per un attimo”.

“E no caro mio! E no! Non ci sto più a queste filosofie del menga. Io sono io e tu sei tu. Smettila di girare la frittata che con me non attacca!”.

L’uomo si sposta e prende un foglio dal tavolo. E’ una bolletta. La guarda e non la legge. La accartoccia, oppure la stritola. La ributta sul tavolo. La pallina di carta rotola e cade a terra. Poi sistema le sedie, quelle intorno al tavolo. Lo fa con nervo. Movimenti bruschi. Le gambe strisciano sul pavimento. Accende la radio. Patience. Guns ‘n’ Roses. Spegne le radio. Apre il frigo. Afferra una Super Tennet’s da 33cl con una presa da guerriero. Vorrebbe brandirla come una clava e sbattergliela addosso. Non lo fa. Apre il tappo facendo leva con un accendino. Tira un sorso lungo. Rutta.

“Salute! Hai mai riflettuto sul fatto che io non so neppure che sapore ha la birra?”.

“Certo che ci ho riflettuto, come no… Pirla! Non lo sai che la birra non la puoi bere? Te ne facessi assaggiare un bicchiere creperesti! Mi alzerei al mattino e ti troverei morto, riverso accanto alla finestra! Hai dei limiti cazzo! E’ già un miracolo che sei in vita! La vuoi capire questa cosa o no?”.

“Tutta questa volgarità è fuori luogo, dato che, se non ricordo male, non sono mai stato offensivo nei tuoi confronti… vorrei solo farti capire che il fatto che io non possa assumere alcolici, non significa che non possa desiderare di provarli. Anzi, forse proprio perché questo piccolo piacere mi è negato, me lo fa desiderare così tanto. Magari dopo un sorso ne rimarrei deluso. Ti assicuro che negare una banalità, in qualche modo, la rende sublime”.

“Ma allora non sei scemo! L’hai detto tu. E’ una banalità. Una banalità che ti costerebbe la vita!”.

L’uomo sembra quietarsi, o quanto meno, smette di girare intorno al tavolo senza meta. Forse le argomentazioni pacate lo hanno forzato ad un tono più mite. Al momento non prova il desiderio di scagliarsi contro di lui. La produzione di adrenalina si arresta, rendendolo ancora più mansueto. Così si siede per terra. Lo guarda dal basso verso l’alto, proprio lì, davanti alla finestra.

“Senti, tralasciamo il discorso sulla birra. Ti prometto che non farò più menzione di alcolici e che non mi lamenterò più quando ti ubriachi davanti ai miei occhi. Sei contento?”.

“Ecco, bene, bravo. Iniziamo a ragionare”.

“Mi fa piacere che apprezzi il mio sforzo. Però adesso devi ascoltarmi e provare a comprendere”.

“Chiedi troppo”.

“Senti. Non chiedo troppo. Ti ho proposto una tregua. Ma tu devi concedermi qualcosa. Non ti chiedo poi molto. Solo di ascoltarmi con attenzione”.

“Ascoltare con attenzione e comprenderti, sono due concetti differenti. Non cercare di fregarmi!”.

“Non ti sto fregando. Quindi mi ascolti con attenzione?”.

“Ok. Muoviti. Ti ascolto con attenzione”.

L’uomo estrae del tabacco e con mani tremanti inizia ad arrotolarsi una sigaretta. Se la mette in bocca. Accende. Tira. Aspira rumorosamente. Deglutisce. Sputa il fumo. Una grande boccata. Aspra. Pare una vecchia marmitta. Rutta.

“Ho parlato di Birra, non di fumo, se non sbaglio”.

“Perché? Non dirmi che avresti voglia di fumare? Questa poi è proprio bella! Mi spieghi come poi pretendere di fumare? Creperesti ancor prima di bere la tua bella Moretti ghiacciata”.

“Questo umorismo mi offende! Ed il fatto che io, per tristi ragioni che sono evidenti, non mi possa permettere vizi, non ti consente di approfittarne! Hai capito?”.

“Ok. Lo abbiamo già fatto questo discorso. Scusa. Questa volta hai ragione tu”.

“Perfetto. Scuse accettate. Ma dato che mi stai fumando davanti, oltre ad ascoltarmi con attenzione, dovrai metterti nei miei panni”.

“Scusami tanto ma anche con le migliori intenzioni la cosa mi pare impossibile”.

“Cerca di capirmi per Dio!”.

“Chi è che non bestemmiava? Ok. Ok… sono tutto orecchi”.

“Prova ad immaginarti legato ad una sedia. Sei legato ad una sedia tutto il santo giorno. Ti hanno anche sistemato dei tubicoli e delle flebo in modo che tu non abbia alcun necessità. Non senti il bisogno di bere, di andare il bagno per… minzionare”.

“Cos’è che non vado in bagno a fare? Minzionare… ma come cavolo parli?”, e ride di gusto.

“Pisciare ti è più familiare?”.

“Hai voglia! Comunque la tua storia non è credibile. Anzi, non è possibile. Non è possibile che io me ne stia con dei tubi legato ad una sedia!”.

“Possibile che tu non sia capace di astrazione? Sei primordiale! Sto parlando per paradossi. Non tutto ciò che vedi ha un significato reale al di fuori del significato stesso che tu gli attribuisci! Ragionare per paradossi significa anche superare il reale per comprenderlo appieno, proprio perché hai modo di superare quelle costrizioni cognitive date dai limiti stessi della logica imposta dalla contingenza”.

“Adesso ti metti a fare il professore! Che paroloni!”.

“Hai mai sognato?”.

“Certamente”.

“Bene, allora entra nel mio incubo, adesso”.

Silenzio. La parola incubo l’aveva sempre dribblata. Un bambino, la bicicletta, i tombini. Pensò alla sua giornata. Anche a quella di ieri. Si attaccò al collo della bottiglia, poi tirò forte dalla sigaretta e infine ruttò. Un rutto mesto, quasi strozzato già nello stomaco.

“L’incubo è questo, caro il mio principino di Oxford. Sei legato e pieno di tubi. Vivi. Le tue funzioni vitali sono alimentate costantemente. Non solo. Sono costantemente monitorate. Sanno quanto ti alimenti, quanto bevi, dove guardi e per quanto tempo. Conoscono il tuo battito cardiaco ed anche le tue emozioni, perché alcune macchine nascoste nelle pareti registrano tutto ed in base all’analisi dei dati raccolti, sono capaci di individuare anomalie di comportamento e di pensiero.  Non solo. Anche il tuo rapporto con il mondo è stato modulato in modo coatto. Ti hanno messo su quella sedia in un determinato angolo della finestra, in modo che tu possa vedere solo la strada che è perpendicolare alla casa, ma non i vicoli che da altre parti raggiungono un’area che sta a pochi passi da te. Queste arterie non le vedi. Ne intuisci l’esistenza perché da qualche parte spuntano macchine, uomini, discorsi… e allora immagini che esistano altre vie, con altre porte, altri scorci differenti dai soliti noti. Bene. Come ti sentiresti? Non avresti voglia di strappare ogni tubo, correre in cortile e cercare di scoprire ogni angolo nuovo di questo mondo? Non avresti voglia di barattare tutta la tua vita da prigioniero con qualche attimo di vera libertà?”.

“Sai cosa ti dico? Non abbandonerei la sicurezza della sedia e delle flebo. Ma prima di spiegarti il perché, lasciami fare un appunto. Il fatto che questo discorso me lo abbia fatto un piccolo cactus comprato in un sabato maledetto di un anno fa al mercato pubblico ad un solo euro, rende il tutto poco credibile. Perché tu, mio caro, non essendo un essere umano sei costretto al vasetto nel quale ti ho messo. Anzi! Dovresti ringraziarmi che te ne ho comprato uno in porcellana bianca, al posto della plastichetta nera in cui ti ho trovato. Quindi se hai desiderio ti sposto, ma ricordati che cambiare posizione ti nuocerà alla salute, tanto quanto la birra ed il fumo. Per quanto riguarda il tuo incubo, fidati, lo chiami così perché non hai idea di che cosa si trovi là fuori. Tu parli di strade invisibili, di alternative possibili, di uomini e discorsi. Sai di cosa parlano quelli là fuori che io vedo e frequento ogni giorno? Eh, lo sai di cosa parlano?”

“Non posso saperlo, non me ne hai mai dato la possibilità”.

“Ah, è così? Eccoti subito accontentato”.

L’uomo si alza di scatto, cammina verso la libreria. Apre un’anta e poi un cassetto. Fruga e trova un sacchetto con un naso da clown, una mascherina, dei coriandoli e due enormi orecchie di plastica. Le afferra, si dirige verso il cactus e gliele infila negli aculei.

“Ecco, anche se assomigli a Dumbo, ora dovresti sentire molto meglio, sbaglio?”.

“Cosa vuoi fare? Sento ogni suono amplificato. Mi rimbomba tutto nella testa!”.

“Ti sto regalando la possibilità di ascoltare il mondo”.

L’uomo afferra il vasetto di porcellana e con due mani lo sporge fuori dalla finestra, come un Re che dal balcone mostri l’erede al popolo. “Ecco, adesso concentrati e ascolta!”, dice al cactus.

Rimane così, con le braccia tese fuori dalla finestra per cinque minuti.

“Riportami dentro adesso, per cortesia, rimettimi sulla mensola!”.

“Allora? Di cosa parlano tutte queste strade, questi uomini, queste infinite possibilità?”.

Le orecchie caddero dal cactus, sospinte da un pianto. Piccole lacrime di acqua scura gocciolavano intensamente dalle punte degli aculei, come il siero la siringa.

“Dai, smettila di piangere… non volevo spaventarti! Volevo solo farti capire che là fuori tutti corrono come folli, parlano di cose futili, spesso fastidiose, rincorrono aspettative strane; non esiste tutta quella libertà che tanto desideri, capisci?”

“Capisco. Ho compreso: vi siete smarriti. Avete sostituito il senso del mondo con il senso delle cose. Anch’io, per quanto possa sembrare incredibile, partecipo a questo specie di dittatura che copre come una maschera ogni significato. Desidero bere, fumare, vivere in un vasetto alla moda. Anch’io ho imparato a bramare ciò che non serve. Eppure, in questo breve ascolto, ho compreso tante cose. Potrei vivere in un’anfora d’oro e succhiare dal sottovaso una frizzante Menabrea; eppure, non sarei libero. Resterei un cactus, in una piccola città, su un minuscolo pianeta, in un angolo invisibile dell’universo illudendomi di essere al centro del mondo: il principe dei cactus! Quindi ti ringrazio amico mio di avermi tutelato in tutto questo tempo. Di avermi bagnato con poche gocce. Di avermi riparato dal rumore freddo della strada con i tuoi serramenti. Di avermi travasato affinché le mie radici fossero più salde. Di aver alzato il riscaldamento spendendo centinaia di euro in bollette. Di aver sorriso, quando generai il mio primo fiore. Ma tu? Tu che farai? Io in qualche modo posso ancora salvarmi, perché nella terra e nel silenzio affonda il mio senso. Ma tu, amico mio, tu che non hai più radici con le quali penetrare la gloria dell’universo e dalla vita che ti ha donato… tu, che farai?”.

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Author: Giorgio Michelangelo

Giorgio Michelangelo Fabbrucci (Treviglio, 1980). Professionista del marketing e della comunicazione dal 2005. Resosi conto dell'epoca misera e balorda in cui vive, non riconoscendosi simile ai suoi simili, ha fondato gli Alieni Metropolitani... e ha iniziato a scrivere.

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3 Comments

  1. A volte riflettere con un cactus è meglio che farlo con le persone. Con lui c’è qualche possibilità che ti ascolti.
    Se poi risponde anche… bhe!

    PS: stupenda trasposizione moderna della poetica leopardiana. Ottima davvero la metafora carnevalesca.

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  2. Piacevole sorpresa, riga dopo riga mi immaginavo l’interlocutore prima come uomo, poi come malato terminale; poi ho pensato di sbirciare il finale ma non l’ho fatto. La libertà, il libero arbitrio, l’essere uomo qui ora necessariamente impone regole delle quali farei volentieri a meno. Ho persino difficolta’ a fermare per un attimo i pensieri in questo organo essenziale che e’ il cervello. Forse chi pensa meno vive meglio ? Chi non si pone certe domande? Sono arrivata alla conclusione che una “educata superficialità’ fa stare piu’ sereni. Oppure riuscire a prendere la giusta distanza da alcune cose far star meglio. C’è qualcuno che lo insegna? Comunque, bravo Giorgio.

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    • Si’carissima Nicla,sono arrivata anch’io alla certezza che una”educata superficialita’”(ottima definizione)faccia vivere meglio.Ahime’,credo che per noi sia impossibile non andare in profondita’con il pensiero:_)Un abbraccio!

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