Tweet

Racconto scritto e proposto da David Marsili

 

Seveso – 10 luglio 1976, ore 12.30 circa.

 

“Fa caldo, è ora di rientrare”.

Teresa lo disse senza troppa convinzione. Ebbe la sensazione di aver parlato all’aria.

Riccardo Ruberti Samosely, 2011-tempera, grafite e olio su tela, cm 130×120.jpg

Faceva caldo, da morire. Eppure al parco c’era ancora gente. Sabrina faceva pratica con la bicicletta, era il primo giro con la bici nuova. Sua madre l’aveva detto a Teresa, di fare attenzione, che la bicicletta era alta e lei non c’era abituata.

Il primo giro, e la bambina già se la cavava bene. Teresa però seguiva Nico, sullo scivolo verde, e ogni tanto roteava gli occhi verso la bambina. Ancora una discesa, e ancora un’altra. Poi un’occhiata a terra. Uccelli zampettavano sul prato, evitando i piedi di bambini troppo scalmanati.

I piccioni hanno sul petto macchie viola e verdi, pensò. Macchie che cambiano alla luce, sembrano petrolio sulla superficie dell’acqua. I piccioni portano le malattie, bisogna stare attenti che i bambini non li tocchino.

Sabrina passò sicura nel suo secondo giro.

E’ ora di rientrare, lo disse a se stessa. Grondava sudore dalla fronte, come è normale che succeda col sole a picco nel luglio della provincia di Milano. Però sudava troppo, e si sentiva la bocca cattiva. E la pancia, la pancia aveva strani languori.

Era ora di rientrare, e poi doveva anche passare a portare Sabrina a casa, da sua madre. E preparare il pranzo, ché all’una tornava Matteo dal lavoro. Nico, però, non sembrava intenzionato a lasciare il parco. Era fradicio di sudore. Bagnato e sporco. Ora era venuto giù di nuovo dallo scivolo, correva in mezzo alla polvere. Aveva un gioco, in mano. Una nave di plastica, rossa. Chissà a cosa gli serviva visto che non c’era neanche una pozza d’acqua. Polvere. Solo oceani e oceani di polvere. Quel gioco però, forse non era un natante, era un’astronave, o a lui piaceva che fosse così.

Ora si era fermato e guardava Sabrina. Che bella che era. Ma poi si era accorto dello sguardo della mamma. Aveva distolto gli occhi ed era arrossito. Puntava la barchetta verso il cielo per distogliere l’attenzione, mirava al sole. Lei però si era già allontanata, per non metterlo in imbarazzo.

La botta alla spalla arrivò all’improvviso. Forte. Nico perse l’equilibrio. Il giocattolo gli sfuggì dalla mano e andò a schiantarsi su un sasso. Lo vide come al rallentatore. L’oggetto che parte lasciando sul palmo solo aria calda, la mano che resta immobile, il mondo stesso immobile, la nave che fa una parabola, che perde quota, che punta dritto al sasso, lo colpisce, perde un paio di pezzi, che rimbalzano dalle parti opposte. Vede ancora se stesso, fermo, ancora prima dell’urto, poi subito dopo la botta, la nave che parte, la mano vuota, i suoi occhi che si serrano, lui che spera che la nave finisca sulla sabbia.

Invece no. Invece è andata a schiantarsi su un pianeta roccioso.

Christian. Era stato lui. Adesso lo guardava, in ginocchio, dal basso. Vedeva la sua sagoma nera dietro il riverbero rosso del sole. Sembrava un eroe dei cartoni animati giapponesi. Di quelli cattivi, però.

Christian, ben piantato sui piedi, sicuro dei suoi mezzi, sempre pronto a farsi spazio con la forza tra gli altri bambini. Anche a scuola succedeva spesso che se la prendesse con qualcuno. Iniziava con piccoli dispetti, offese indirizzate alle mamme e alle nonne, e poi partiva un pugno che faceva belare il prescelto.

Ora Nico guardava l’altro, poi guardava la nave, o quel che ne restava. La voce del capitano nella sua testa diceva: danni importanti sul settore quattro. Bisogna trasferire tutti nei settori integri. Alzare gli scudi di protezione. Controllare i comandi di bordo. Bisogna riattivare i motori. Ripartire a tutta velocità. Distruggere il nemico. O scappare via. Via verso lo spazio siderale.

Voleva piangere, gli occhi erano pronti, ma la bocca resisteva. Il capitano non gliel’avrebbe permesso. Nico serrava i denti e restava fermo, ma non ce la faceva più a guardare Christian. Se poi avesse pianto, Sabrina.

Sabrina, cosa avrebbe pensato di lui.

“Sei un pirla” rideva Christian con gli occhi quasi chiusi e gli angoli della bocca che gli toccavano quasi le orecchie. “Sei una mammoletta”. Sputò in terra, vicino a Nico. “Adesso piangi e vai dalla mammina, che poi ti ricompra il giocattolino”.

Teresa non si era accorta di nulla. Guardò di nuovo l’orologio, fece una smorfia e si mise una mano in tasca. Le chiavi tintinnavano urtando qualche spicciolo.

Aveva evitato un paio di mamme noiose e logorroiche, non aveva voglia di sentire i soliti discorsi sulla cacca e la pipì, sulla scuola, le malattie esantematiche e tutto il resto. Aveva girato intorno al chiosco, alla ricerca dell’ombra, si era quasi nascosta dietro a un albero, e finalmente poteva trovare un po’ di sollievo nella tasca.

   Ci teneva dentro un libro, mezzo sgualcito. Un romanzo di Calvino pubblicato qualche anno prima, ma che ancora non aveva avuto il tempo di leggere. Toccò il libro solo per sentire il contatto con la carta, indecisa se tirarlo fuori o no. Rimase così per qualche secondo, poi lo tirò fuori. Apriva qualche pagina a caso, leggeva due righe e poi guardava intorno. Sabrina passava nel suo ennesimo giro. Nico non si vedeva. Ancora un vuoto sulla pancia, una fitta leggera alle ovaie. Sette giorni di ritando. Il flash di quella sera che Matteo era andato dritto.

C’erano alberi insecchiti, un palo della luce verniciato male, scritte sui muri sul Milan e sull’Inter. Un traliccio dell’alta tensione sfregolava onde elettromagnetiche, suonando come mille cavallette. Il vento a folate leggere. Parole di Calvino che ora non riusciva ad afferrare.

Continuava a guardarsi intorno e, mentre osservava tutti quei dettagli invisibili, era come se fosse sola. Invisibile anche lei. Come tutto il resto. Come le città di quel libro nelle sue mani.

Eppure tutto si muoveva veloce, si muoveva in cicli. I piedi della bimba disegnavano cerchi, le ruote erano cerchi loro stesse, il percorso erano cicli. Tutto si muoveva, girava veloce, ma poi, di colpo, si fermò.

Il fischio assordante congelò il tempo e il movimento. Tutti i palloni smisero di rotolare, i bambini di scivolare, la gente di parlare, le biciclette di andare, i ragni di salire e scendere dagli alberi. Solo gli uccelli infransero quella pausa quasi liturgica, e volarono via, veloci, disordinati e spaventati.

E alla fine qualcosa cambiò il colore del sole, e insieme al sole, di tutte le cose intorno.

Il fumo sembrava venire da nord, ma non si capiva bene. Saliva in vortici e si riavvitava verso il suolo scaricando polveri e gas che sapevano di uova marce e di medicinali. Medicinali, o forse disinfettante. A Meda fanno il triclorofenolo, questo pensò subito Laura. La fabbrica. Quella dei profumi.

Con un gesto unico gettò il libro nella polvere, prese un fazzoletto di stoffa dalla borsa, nel tirarlo fuori fece cascare in terra altri oggetti. Si mise il fazzoletto al naso e corse via, aggirando il suo platano, verso il centro del parco. Correva e gridava i nomi dei bambini.

Ora tutti sembravano essersi resi conto. Schizzavano come schegge, mamme alla ricerca dei figli, bimbi che correvano, altri con le mani alle orecchie, altri ancora con le lacrime agli occhi, smarriti su qualche aiuola. Teresa passò accanto alle altalene, corse verso gli scivoli, vide Sabrina che stava ancora sulla bicicletta, con un piede a terra, guardava il cielo. La raggiunse, le gridò di non respirare, e chiese di Nico. La bambina si guardò attorno un po’ smarrita, poi allungò il braccio verso la collinetta. Nico era a terra con il giocattolo in mano. Era solo sull’altura. Gli altri bambini erano già fuggiti in direzioni casuali. Teresa vide la sagoma del figlio in una specie di zona scura, come se tutto il fumo si fosse concentrato da quella parte. Si mise ad urlare ma non aveva più voce. I capelli, sciolti, si appiccicavano alle labbra. Perse una scarpa ma continuò a correre, obliqua, sulle zolle secche. Raggiunse il bambino e lo toccò come un piccolo dio. Ora la nube si era diradata, e l’odore non si sentiva quasi più.

Il fischio era durato qualche minuto. Dieci, forse quindici. Abbastanza da stordire. Ora c’era un silenzio strano, era come se le orecchie fossero sottovuoto.

Si guardarono, gli occhi dell’uno in quelli dell’altra, senza dire niente. Poi fu Nico. Alzò le mani sporche di terra verso la madre, mostrando frammenti del giocattolo rotto.

“Mamma. Guarda cosa. Guarda cosa ha fatto Christian” e gli scese una lacrima sullo zigomo.

“Non importa. Non importa amore mio”.

E anche lei si mise a piangere, piano, per non farsi sentire.

 
David Marsili
 
___
 
Leggi gli altri racconti inviati dai lettori
Print Friendly