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Marco Missiroli – Il Senso dell’Elefante

Recensione, per lo Speciale Premio Campiello 2012, di Raffaella Foresti

 

Ciò che ho apprezzato più di questo romanzo è la lentezza. Una lentezza che non significa noia, trama stentata, inutili descrizioni artefatte. Tutto il contrario.
É una lentezza da elogiare perché esprime grazia, equilibrio, gusto. É l’eleganza di una donna anni ’30, il cui pallore non è mortifero ma perlaceo e misterioso.
Il senso dell’elefante (Guanda, 2012) è soprattutto questo: un’atmosfera nostalgica dentro la quale lo scrittore riesce ad individuare ed illuminare le cose che contano, ambientandole in un condominio milanese postmoderno che diventa come il mondo, in cui gli individui condividono spazi comuni di fragilità e senso di appartenenza.

Marco Missiroli è un giovane scrittore molto “curricolato”, forse troppo. Laurea all’Alma Mater Studiorum, scuola Holden, premi su premi per i primi tre libri pubblicati, mentre il quarto, quello di cui stiamo parlando, è nientemeno che finalista al Campiello. Per chi, come me, non cela pregiudizi verso l’intellighenzia istituzionale  italiana, questa non è certo una bella presentazione.
Ma l’autore si riscatta benissimo con la sua scrittura, e tanto basta. Anzi, è tutto.
Leggere questo romanzo mi ha fatto pensare a Milan Kundera quando scrisse:

“Perché è scomparso il piacere della lentezza? Dove mai sono finiti i perdigiorno di un tempo? Dove sono quegli eroi sfaccendati delle canzoni popolari, quei vagabondi che vanno a zonzo da un mulino all’altro e dormono sotto le stelle? Sono scomparsi insieme ai sentieri tra i campi, insieme ai prati e alle radure, insieme alla natura?”

Forse non sono tutti scomparsi. Forse il giovane scrittore “curricolato” è uno di loro.

Il senso dell’elefante è un romanzo profondamente umanista che non si svilisce nel melodramma. Non so se merita di vincere il Campiello. Di certo merita di essere letto.

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Raffaella Foresti
[email protected]

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Author: Raffaella Foresti

“Il cane odiava quella catena. Ma aveva una sua dignità. Quello che faceva era non tendere mai la catena del tutto. Non si allontanava mai nemmeno quel tanto da sentire che tirava. Nemmeno se arrivava il postino, o un rappresentante. Per dignità, il cane fingeva di aver scelto di stare entro quello spazio che guarda caso rientrava nella lunghezza della catena. Niente al di fuori di quello spazio lo interessava. Interesse zero. Perciò non si accorgeva mai della catena. Non la odiava. La catena. L'aveva privata della sua importanza. Forse non fingeva, forse aveva davvero scelto di restringere il suo mondo a quel piccolo cerchio. Aveva un potere tutto suo. Una vita intera legato a quella catena. Quanto volevo bene a quel maledetto cane “

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